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Il cammino minerario di Santa Barbara

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di Marco Pantaloni

http://www.camminominerariodisantabarbara.org/it/in-cammino/il-percorso/

In un periodo convulso e difficile come quello che stiamo attraversando, sempre più di frequente si cerca rifugio nella spiritualità e nella ricerca del proprio essere.
Anche l’unione tra l’arricchimento culturale e umano, unito ad una pratica ormai quasi abbandonata, che è quella del camminare, spinge le persone a cercare di soddisfare le proprie esigenze seguendo percorsi che, segnati nei secoli dal camminare dei pellegrini, conducono verso luoghi simbolo, quasi sempre di carattere religioso.
Il motivo dell’affrontare questi pellegrinaggi è quasi sempre di natura religiosa, associato al contesto storico in cui questo si svolge. Oggi, tuttavia, questa motivazione non è più determinante e, comunque, non è più esclusiva.
In Spagna, famoso è il “Cammino di Santiago” che da varie località conduce verso Compostela e la Basilica dove sono conservate le spoglie mortali di San Giacomo (ad limina sancti Iacobi).
In Italia, altrettanto famosa è la “Via Francigena”, o Romea; in questo caso si tratta di un fascio di vie e sentieri che dall'Europa occidentale, in particolare dalla Francia, conducevano dapprima a Roma e poi proseguivano verso la Puglia, dove si trovavano i porti d'imbarco per la Terrasanta, meta dei pellegrini e dei crociati. La Via Francigena è stata riconosciuta nel 2004 come “Grande Itinerario Culturale Europeo”, tanto che lo storico Jacques Le Goff l’ha definita “il ponte tra l’Europa anglosassone e quella latina”. L’importanza culturale di questo itinerario culturale punta verso la candidatura della Via Francigena come patrimonio mondiale dell’Unesco.

Girando in rete abbiamo scoperto, quasi per caso, in un itinerario che unisce l’osservazione dell’attività geologico-mineraria al misticismo di Santa Barbara, protettrice dei geologi e dei minatori: il “Cammino minerario di Santa Barbara”.


Il Cammino minerario di Santa Barbara si sviluppa per una lunghezza di 388 km, che arrivano a 407 con le varianti, lungo un circuito ad anello nella regione del Sulcis-Iglesiente-Guspinese.
Il percorso si svolge per il 75% su sentieri, mulattiere, carrarecce e strade carrabili sterrate, e per il restante 25% su strade urbane o extraurbane asfaltate o lastricate. Il cammino si sviluppa in 24 tappe, della lunghezza media di circa 16 km, con una quota che va dal livello del mare ai circa 900 metri nel sistema montuoso del Marganai. Numerosi sono i dislivelli, anche se quasi mai impegnativi.
La suddivisione nelle tappe è stata effettuata in modo da permettere con facilità il percorso, anche alle persone non allenate, e anche per lasciare il tempo agli escursionisti di visitare luoghi di archeologia classica e industriale di suggestiva bellezza.
Quindi, l’itinerario è stato suddiviso in 24 tappe della lunghezza media di circa 16 km ciascuna, tenendo conto anche della ricettività dei villaggi minerari attraversati. Il calcolo delle percorrenze si basa su una velocità media di 3 km/h, stimata sulla velocità di un camminatore che, frequentemente, si ferma ad osservare i paesaggi, le forme del terreno, le formazioni geologiche, le strutture minerarie, i resti archeologici e le meraviglie del territorio sardo.
Ovviamente il percorso può essere calibrato in base alle proprie esigenze, alla disponibilità di tempo, all'interesse delle visite nei singoli siti.

Gli organizzatori comunicano “lavori in corso” nella definizione della percorribilità dei tracciati; è quindi importante, prima di intraprendere il cammino, verificare l’effettivo aggiornamento della segnaletica. In caso di manutenzione, l’organizzazione dichiara di predisporre itinerari alternativi, tutti marcati con una specifica segnaletica.

Sul sito Web del cammino, si trova l’indicazione completa del percorso e la suddivisione delle singole tappe:




1. Iglesias→ Nebida
2. Nebida→ Masua
3. Masua→ Buggerru
4. Buggerru → Portixeddu
5. Portixeddu → Piscinas
6. Piscinas → Montevecchio
7. Montevecchio → Perd' e Pibera
8. Perd' e Pibera → Villacidro
9. Villacidro → Monti Mannu
10. Monti Mannu → Arenas
11. Arenas→ San Benedetto
12. San Benedetto → Case Marganai
13. Case Marganai → Domusnovas
14. Domusnovas → Orbai
15. Orbai → Miniera Rosas
16. Miniera Rosas → Nuxis
17. Nuxis → Santadi
18. Santadi → Is Zuddas
19. Is Zuddas → Masainas
20. Masainas → Sant' Antioco
21. Sant' Antioco → Carbonia
22. Carbonia → Nuraxi Figus
23. Nuraxi Figus → Bacu Abis
24. Bacu Abis → Iglesias

Alcuni dei luoghi percorsi sono estremamente suggestivi e, da un punto di vista geologico, particolarmente interessanti; prima di partire si consiglia la lettura del volume “Geologia della Sardegna – Note illustrative della Carta geologica della Sardegna a scala 1:200.000”, pubblicato nella Collana Memorie Descrittive della Carta Geologica d’Italia, vol. 60, 2001, disponibile in rete sul sito dell’ISPRA (http://www.isprambiente.gov.it/it/pubblicazioni/periodici-tecnici/memorie-descrittive-della-carta-geologica-ditalia/geologia-della-sardegna-2013-note-illustrative-della-carta-geologica-della-sardegna-a-scala-1-200.000).



Come nei più blasonati cammini spagnoli, anche il “Cammino Minerario di Santa Barbara” prevede l’attribuzione di una Credenziale personale ai singoli escursionisti: la credenziale è una sorta di “passaporto” dell’escursionista che ne attesta la sua identità e lo distingue da ogni altro viaggiatore. Nella credenziale, inoltre, vengono indicati luogo e data di arrivo e partenza, e ci sono gli spazi per i timbri che attestano l’avvenuto passaggio nelle singole tappe del Cammino.
La credenziale è rilasciata dalla Fondazione Cammino Minerario di Santa Barbara e può essere richiesta su sito www.camminominerariodisantabarbara.org o acquistata presso il service point della Fondazione in piazza Municipio 1 a Iglesias.
I timbri verranno apposti dagli organismi religiosi, dagli uffici comunali e da altri soggetti privati; ogni sera, all'arrivo nel luogo del pernotto, la credenziale si arricchisce di un timbro che diventa così il ricordo più prezioso della fatica del cammino.

Per saperne di più:


L’importanza degli archivi storici nella ricostruzione degli effetti locali di grandi eventi geologici del passato: le eruzioni del Laki (1783) e del Tambora (1815)

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di Isabella Salvador

Fig. 1 - Eruzione del Monte Vesuvio dell’8 agosto 1779 dove sono messi in evidenza i fenomeni atmosferici connessi (nubi e scariche elettriche) (da: Campi Flegrei. Osservazioni sui vulcani delle Due Sicilie, W. Hamilton).
Nell’estate del 2016, conducendo ricerche storiche nell’Archivio della Biblioteca Civica di Rovereto, mi sono imbattuta in alcuni volumi manoscritti fitti di annotazioni e dati numerici: si trattava di diari meteorologici redatti tra il 1778 e il 1839 dall’abate Giuseppe Bonfioli (? - 1840), fisico trentino che, seppur membro dell’Accademia degli Agiati di Rovereto, aveva lasciato ben poche tracce di sé per i posteri.
I diari, nei quali Bonfioli oltre ad aver registrato scrupolosamente temperatura e pressione giornaliera, aveva anche descritto i principali eventi meteorologici occorsi (fig.2), rappresentano una ‘banca dati’ di indiscusso valore, tanto più che si tratta di osservazioni registrate durante un periodo di anomalie atmosferiche ben note.
Tra la fine del ‘700 e l’inizio dell’800 si era infatti registrata una fase di significativa riduzione dell’attività solare (minimo di Dalton 1790-1820), caratterizzata da un abbassamento medio delle temperature globali. Chiudeva questo trentennio uno dei fenomeni eruttivi più energetici della storia recente della Terra: l’eruzione del vulcano Tambora (5 - 15 aprile 1815) che avrebbe provocato, l’anno successivo, quello che passò alla storia come l’  “anno senza estate”, di cui proprio nel 2016 ricadeva il duecentesimo anniversario.
La curiosità di trovare qualche traccia degli effetti di tale eruzione anche in quelle pagine e di cogliere, con lo sguardo di uno studioso di inizio Ottocento, le ‘stranezze’ che potevano essersi palesate in una piccola valle alpina, mi spinsero a immergermi completamente in quel mondo dimenticato da 200 anni.
Inaspettatamente oltre a trovare testimonianza degli effetti del Tambora, descritti come una “specie di disordine nelle stagioni e nella temperatura” in tutta Europa durante il bienno1816-1817, Bonfioli riportava anche il resoconto di strani fenomeni verificatisi durante l’estate del 1783 e nel successivo1821.

Fig. 2 - Pagine del diario meteorologico di Giuseppe Bonfioli del 1816, l’ “anno senza estate”(Archivio comunale di Rovereto).
Tra le pagine del diario, quelle più dense di annotazioni si riferiscono proprio al biennio 1816-1817.
I primi sentori delle ‘stranezze meteorologiche’ furono registrati nella primavera del 1816. Bonfioli aveva notato che, fino a maggio, le temperature erano state particolarmente rigide e che, tra il 13 e 14 di quel mese, aveva nevicato anche nella città di Trento e nelle campagne del fondovalle. Le piogge e le nevicate a bassa quota erano continuate per tutto il mese di giugno e luglio, tanto che la quantità eccezionale di precipitazioni di quei mesi aveva provocato un aumento insolito del livello del Lago di Garda. Il cattivo tempo si era protratto fino all’autunno inoltrato. In quell’anno in Trentino la temperatura media fu 1,2° inferiore a quella del decennio 1810-1820, con punte di quasi 2° in meno nel mese di luglio. I giorni di pioggia intensa aumentarono del 35% concentrandosi soprattutto nei mesi di aprile, maggio e giugno.
Incuriosito dall’eccezionalità climatica di quell’anno, Bonfioli aveva trascritto articoli dai giornali delle principali città europee (es. Parigi, Francoforte, Augusta), constatando che le anomalie meteorologiche di quell’anno (e della prima metà del 1817) non erano state un fenomeno locale, ma avevano coinvolto gran parte del vecchio continente.Da Parigi, il 15 febbraio 1817, giungevano notizie di “una specie di disordine nelle stagioni e nella temperatura” (fig.3,a); la Gazzetta di Milano, riprendendo notizie provenienti dalla Svizzera, parlava di un clima nel quale “sembra che in varie regioni tutto proceda in opposizione ai principi ricevuti”.


Fig. 3 - Pagine dal diario meteorologico di Giuseppe Bonfioli: a) notizie provenienti da Parigi del febbraio 1817 circa un certo “disordine nelle stagioni”; b) resoconto di fine anno 1816; c) estratto dalla Gazzetta di Milano del febbraio 1817 che parla del “ridicolo della stagione” e di “foltissime nebbie … sulle rive del Lago di Ginevra” (Archivio comunale di Rovereto).

Il dibattitto sullo strano evolversi delle stagioni fu alimentato anche da particolari fenomeni atmosferici osservati in varie città europee nei primi mesi del 1817: nebbie persistenti e basse, che velavano i cieli di strani rossori, furono osservate da Venezia a Parigi, dalla Sicilia all’Inghilterra. A questi eventi si erano sommate altre “cose degne di attenzione: le irregolarità e i singolarissimi accidenti dei Barometri; la deviazione dell’ago magnetico; il flusso e riflusso che accade nell’Adriatico. Molti studiosi avevano tentato invano di dare una spiegazione agli eventi verificatesi negli ultimi mesi senza giungere a una conclusione condivisa, tanto che nel Giornale astro-meteorologico del 1817 si scrisse: “Dell’annata corrente si discorse in più luoghi. Le vicende sue attribuirono alcuni alle macchie del Sole [...] Altri appigliaronsi alla calamita ed alle mosse dell’ago calamitato [...] Altri borbottarono contro la Cometa del 1811 [...]. Altri se la presero colle maree dell’Adriatico, ma non intendo né punto né poco cosa dir vogliono, [...] In somma non fecero invidia al popolo certamente, che Venere prendea per insolita e nuova stella, e per poco anche alcuno fuor de’ ghangheri non temea uscito il grande Asso mondano”.
Solo più di un secolo dopo si riuscì a dimostrare come buona parte di questi eventi fossero legati all’eruzione di un vulcano dall’altro capo della Terra. Nel 1979 gli oceanografi americani Henry e Elizabeth Stommel dimostrarono che l’eruzione del vulcano Tambora (1815), nell'arcipelago indonesiano della Sonda, era stata la causa delle anomalie climatiche del 1816. A rendere tragicamente famoso quell’anno contribuì la penuria di cibo e la conseguente carestia in tutta Europa, aggravata dal freddo intenso delle annate precedenti (fig. 3,b), che aveva già compromesso i raccolti e provato una popolazione che stava lentamente riprendendosi dalle conseguenze delle guerre napoleoniche.

Poco più di trent’anni prima, un’altra eruzione, quella del sistema islandese di Laki (8 Giugno 1783 - 8 febbraio 1784), aveva duramente colpito una vasta parte di Europa, Nord America, Asia e Africa settentrionale. Il 17 giugno erano apparse per la prima volta in Trentino strane esalazioni, che avevano reso l’aria densa e fosca e il sole costantemente velato; la caligine avvolgeva i fondovalle e le montagne sia di giorno che di notte, per sparire temporaneamente spesso a seguito di forti temporali e poi ricomparire fitta e densa come prima. Il sole, all’alba e al tramonto, assumeva “un color rosso d’una maniera che sembrava coperto di sangue, di modo che si poteva mirare ad occhi aperti senza esser offeso dai raggi e così pure colorita appariva la luna”. L’inspiegabilità del fenomeno aveva iniziato ad angosciare la popolazione; erano ormai più di due mesi che la strana esalazione aveva invaso le vallate alpine. A destare ulteriore preoccupazione, a partire dalla metà di luglio, erano stati alcuni temporali straordinari per l’intensità e la violenza dei fulmini.
Nel frattempo da altre città provenivano voci che fenomeni simili a quelli osservati nelle vallate alpine si erano registrati in gran parte del nord Italia e dell’Europa; i più importanti studiosi dell’epoca azzardarono le prime ipotesi sull’origine della ‘nebbia secca’ e sulla sua possibile pericolosità. Bonfioli annotò nel suo diario: “In giugno e luglio vi furono quasi ogni giorno esalazioni così forti tutto all’intorno che appena appena si distinguevano le vicine montagne, questo fenomeno fu eguale in tutto il Tirolo, Austria, buonaparte della Germania, in tutta l’Italia e Francia; furono queste esalazioni seguite da fieri temporali, e da quantità spaventevoli di fulmini colla peste ancora in fine nell’Ungheria e terremoti in Calabria” (fig.4). Lo studioso trentino sembrava quasi suggerire che le nebbie e i violenti temporali fossero in una qualche maniera collegati con la peste in Ungheria e con i terremoti nel sud Italia, eventi che avevano avuto particolare risonanza nella stampa nazionale di quell’anno.
 
Fig. 4 - Sintesi che il fisico Giuseppe Bonfioli fa dell’anno 1783 (Archivio comunale di Rovereto).

L’opinione più diffusa all’epoca era infatti quella che gli eventi sismici, che avevano colpito Messina e il sud della Calabria tra il 5 febbraio e il 28 marzo, potessero essere la causa della densa nebbia, molto simile a “l’aria nebulosa” descritta dopo le intense scosse, e che fosse la stessa prodotta dal terremoto, alzatasi nell’atmosfera portata da “li Venti Austrosiroccali” che avevano dominato nel mese di giugno (fig.5).
Altri studiosi, come il Cav. de Lamanon, naturalista dell’Accademia delle Scienze di Parigi, ipotizzava che la nebbia così come i terremoti del 1783 avessero cagione comune, ovvero la siccità che per alcuni anni aveva caratterizzato gran parte dell’Europa e dell’Asia. Tra le varie ipotesi vi era anche quella che potesse trattarsi della coda di una grande cometa che era stata osservata quell’anno e che avesse lasciato una scia di particelle nell’atmosfera.
 
Fig. 5 - Il devastante terremoto di Messina del 1783 (veduta ottica di G.B.Probst, Augsburg 1785)

Uno dei primi studiosi che correlò questi fenomeni alla loro reale origine fu un botanico toscano, Giovanni Lapi che, osservando i fuochi di Pietramala nel Mugello e l’aria caliginosa nelle immediate vicinanze, ipotizzò che per trovare la causa della caligine del 1783, bisognasse analizzare gli eventi eruttivi che si erano verificati nei mesi precedenti. A simili conclusioni era giunto il naturalista francese Mourgue de Montredon nell’agosto dello stesso anno, e Benjamin Franklin nel maggio del 1784. Questi studiosi associarono la nebbia all’eruzione di un vulcano islandese, visto che proprio i cieli del Nord Europa erano stati i primi ad essere invasi dalla caligine e che i giornali di quell’anno avevano riportato di eruzioni nelle “islandiche terre di fuochi”.
I primi effetti dell’eruzione del Laki (8 giugno) giunsero in Italia settentrionale dopo 9 giorni, e a fasi alterne (nei primi cinque mesi si susseguirono 10 eruzioni) le strane esalazioni rimasero fino al 30 agosto (con residui fino a fine settembre). L’incremento delle precipitazioni, in corrispondenza delle maggiori concentrazioni di particolato, risulta concorde al modello che prevede la temporanea eccedenza di nuclei di condensazione in atmosfera, favorendo gli eventi meteorici intensi.
Fig. 6 - Diario meteorologico di Bonfioli; il 10 luglio annota che “a cagione d’una forte esalazione la Luna fu per tutta la notte d’un colore sanguigno” (Archivio comunale di Rovereto).
Fenomeni analoghi furono annotati da Bonfioli anche nel 1821. Il 10 luglio di quell’anno: “a cagione d’una forte esalazione la Luna fu per tutta la notte d’un colore sanguigno” (fig.6). Una strana nebbia ricomparve nelle valli alpine il 18 agosto per rimanervi alcuni giorni. L’insolita caligine fu osservata in varie città del nord Italia (Padova, Venezia, Firenze), così come a Parigi e Londra. Prima della fine dell’anno un altro evento riaccese il dibattito tra gli studiosi sulle cause di tali anomalie. In molte città italiane ed europee violentissimi temporali accompagnati da vento impetuosissimo funestarono la notte di Natale del 1821. Il rapido e straordinario abbassamento del barometro, il nubifragio che colpì molte città portuali, la simultaneità dell’evento e la sua grande estensione, fecero pensare che la causa fosse da ricercarsi nella presenza in atmosfera di una “elettricità strepitosa fulminante”, come sembravano provare, oltre ai violenti fulmini caduti ovunque, anche le “strisce luminose che ora solcavano il mare a guisa di folgori, ed ora ne lambivano semplicemente la superficie”. Cosa avesse potuto scatenare simili fenomeni rimase senza risposta, sebbene fosse ancora vivo il ricordo delle analoghe condizioni atmosferiche che avevano contraddistinto l’estate del 1783.

L’eruzione del Krakatoa (vulcano nell'isola indonesiana di Rakata) il 26 agosto del 1883, fu per certi versi fondamentale per la comprensione delle relazioni tra sistemi atmosferici ed eventi vulcanici intensi posti anche a notevoli distanze. In occasione della comparsa in Europa, verso la fine di agosto 1883, di “nebbie secche” e a fenomeni crepuscolari simili a quelle del 1783, lo studioso W.H. Larrabee ipotizzò che questi avvenimenti fossero collegati all’eruzione del Krakatoa, così come confermò che gli analoghi fenomeni del 1783 dipendessero dall’eruzione del vulcano Laki in Islanda, e quelli del 1821 dalla probabile eruzione nell’isola di Bourbon, del 27 febbraio di quello stesso anno.
Oggi sappiamo che l’eruzione dell’isola Bourbon (ovvero il Piton de la Fournaise nell'isola di Reunion, di fronte al Madagascar), invocata al tempo come possibile causa scatenante, non fu di intensità sufficiente a far risentire i suoi effetti fino al continente europeo. Allo stesso modo, le numerose eruzioni avvenute tra 1820 e 1821 tra Pacifico e Sud America cui si aggiungono gli italiani Stromboli, Etna e Vesuvio, risultano di intensità troppo bassa per giustificare una perturbazione a cosi larga scala e di conseguenza la causa delle anomalie metereologiche del 1821 rimane a oggi senza spiegazione.

Gli effetti diretti o indiretti delle eruzioni del 1783, del 1815 e forse del 1821, non sfuggirono agli osservatori del passato ed ebbero sovente ripercussioni su economia, ecosistemi e società. Le tesi che fisici, astronomi, naturalisti e medici del tempo elaborarono per giustificare questi “apparenti disordini delle leggi fisiche dell’universo” furono numerose e talora fantasiose. Purtuttavia lo scambio di informazioni tra studiosi di diverse città per documentare e spiegare questi strani fenomeni, veicolate anche attraverso la stampa dell’epoca, favorì il dibattito pubblico accorciando le distanze di un mondo che stava lentamente abbandonando superstizioni e credenze popolari per lasciare il posto a un moderno pensiero scientifico.

Per saperne di più:

Salvador I., Romano M. & Avanzini M., 2018 - Gli “apparenti disordini delle leggi fisiche dell’universo”: gli effetti delle eruzioni del Laki (1783) e del Tambora (1815) nelle cronache delle regioni alpine. Rendiconti Online Società Geologica Italiana, Vol. 44(2018): 72-79. https://doi.org/10.3301/ROL.2018.11

Salvador I., Romano M. & Avanzini M., 2017 - "Da per tutto il cielo sembrava di fuoco": gli strani fenomeni atmosferici del 1821 in Trentino e una misteriosa eruzione. Studi trentini di scienze naturali, 96 (2017): 133-141.


La (mancata) conservazione dei beni a carattere geologico - storico: l’Acqua Lancisiana

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di Marco Pantaloni

Nel centro di Roma, a poca distanza dal Vaticano, si trovava, fino a pochi decenni fa, una delle più famose sorgenti romane: l’Acqua Lancisiana.
Scoperta nella seconda metà del 1500 sulla Salita di Sant’Onofrio, alle pendici del Gianicolo, dal medico romano Alessandro Petronio, la sorgente venne descritta nella sua opera “De victu romanorum et di sanitate tuenda”, pubblicata a Roma nel 1581.

Frontespizio del volume "De victu romanorum et di sanitate tuenda",
di Alessandro Petronio


Il paragrafo "De Fonticulo in Tyberis ripa apud Sanctum Spiritum",
nel quale vengono descritte quelle che poi verranno chiamate Acque Lancisiane

In realtà l’uso della sorgente è precedente la descrizione di Petronio; infatti, l’utilizzo già in epoca romana è testimoniato dalla presenza di un cunicolo che drenava la falda presente nelle sabbie gialle e grigie della Formazione di Monte Mario (MTM) alimentando, probabilmente, la Domus Agrippinae.

Stralcio del foglio geologico 374 Roma della Carta Geologica d'Italia alla scala 1:50.000,
con evidenziata l'area dell'ubicazione delle sorgenti dell'Acqua Lancisiana.
Immagine tratta dal sito ISPRA (www.isprambiente.it)

In seguito la sorgente venne abbandonata e non più utilizzata, fino al XVIII secolo quando il medico romano Giovanni Maria Lancisi (1654 - 1720), identificata l’emergenza idrica, ne compì delle analisi sulla “leggerezza e purità”, come ci racconta Alberto Cassio nel 1756. Lancisi cominciò quindi a usarla per gli ammalati “con si giovevoli effetti che, nel vicino Archiospedale di Santo Spirito le fu dato il titolo di Acqua Lancisiana”.
Il frontespizio del volume "Corso delle acque antiche portate sopra XIV aquidotti
da lontane contrade nelle XIV regioni dentro Roma, delle moderne e di altre in essa nascenti",
di Alberto Cassio

L’allora papa Clemente XI volle quindi che venissero riunite le diverse vene d’acqua e ripristinato l’antico condotto; l’acqua venne quindi canalizzata in tre differenti tubazioni con una portata complessiva di circa 2,3 l/s: una parte venne condotta all’interno dell’ospedale, ad uso dei pazienti, e una parte venne fatta confluire in una conca di marmo posta sovrastata da un mascherone, disegnato da Giacomo Della Porta e recuperato da un abbeveratoio nel Foro Romano, rendendola quindi disponibile alla popolazione romana.

In primo piano, la Fonte dell'Acqua Lancisiana sulla riva destra del Tevere,
in prossimità dell'attuale Lungotevere Gianicolense;
sul lato opposto la Chiesa di San Giovanni dei Fiorentini.
(Immagine tratta dal sito Rerum Novarum)

In seguito all’ampliamento dell’Ospedale Santo Spirito nel 1827, però, l’accessibilità alla fonte fu negata; venne ripristinata solamente da Pio VIII nel 1830, dopo molte proteste. Lo stesso Pio VIII, che definiva l’Acqua Lancisiana la migliore di Roma, restaurò il condotto di adduzione facendolo confluire nella nuova fontana ubicata nel Porto Leonino sul Tevere, realizzato da Leone XII, in prossimità dello scomparso Ponte dei Fiorentini.
La costruzione dei muraglioni alla fine del ‘800 comportò ulteriori modifiche alla fonte. La fontana esistente venne rimossa e vennero costruite due nicchie nei muraglioni nelle quali sgorgavano le acque sorgive.
Ciascuna nicchia ha due cannelle, che versavano acqua in vasche rettangolari, accessibili da rampe di scale che dal Lungotevere scendono sull’argine del fiume. Sopra le nicchie sono state poste due lapidi, a memoria dei rifacimenti: quella più a monte, verso il Ponte Principe Amedeo Savoia Aosta, ricorda la sistemazione di Clemente XI del 1720, l’altra quella di Pio VIII del 1830. E’ curioso notare un errore geologico nel testo: si afferma infatti che le acque originano dal Colle Vaticano, mentre derivano da quello Gianicolense.
La lapide commemorativa della sistemazione delle Acque Lancisiane
compiuta da papa Clemente XI nel 1720

Addirittura, nel 1924 venne avviata l’attività di imbottigliamento effettuata dalla Società Anonima Acque Minerali; per tale scopo, una delle condutture venne derivata verso la stabilimento di imbottigliamento posto su Viale Gianicolo, mentre un’altra continuò ad alimentare una delle due nicchie. L’attività industriale venne sospesa dopo la costruzione della galleria di Porta Cavalleggeri e della fogna del Gelsomino, che portarono, nel 1942, alla chiusura dell’adduzione dell’acqua a causa di un sospetto inquinamento (molto verosimile), come già evidenziato anni prima da analisi compiute dal CNR. Da allora, dell’acqua non rimane traccia essendo derivata direttamente in fognatura.
L’Acqua Lancisiana ebbe, come naturale, diverse denominazioni, quasi tutte di origine popolare trasteverina: Acqua Pia, Acqua di Porto Leonino, Acqua della Fontanella o Acqua della Barchetta; quest’ultima derivava dalla vicinanza di un battello per il trasferimento dalla Lungara verso Via Giulia.
Oggi le nicchie dell’Acqua Lancisiana sono ancora visibili, anche se in pessime condizioni di conservazione, al limite dell’abbandono. La curiosa e complessa storia di queste sorgenti, che tanto hanno significato per il rione di Trastevere e per la città di Roma, richiedono assolutamente un diverso grado di conservazione, al fine di garantire il mantenimento della memoria geologico - storica della città, delle quali le Acque Lancisiane rappresentano un unicum nel loro genere.


L'attuale condizione di degrado di una delle nicchie dell'Acqua Lancisiana,
completamente abbandonata


Per saperne di più:
Camponeschi B. & Nolasco F. (1982) – Le risorse naturali della Regione Lazio: Roma e i Colli Albani. Regione Lazio, 7, Roma.
Cassio A. (1756) – Corso delle acque antiche portate sopra XIV aquidotti da lontane contrade nelle XIV regioni dentro Roma,  delle moderne e di altre in essa nascenti. Tip. Puccinelli, Roma.
Corazza A., Lombardi L. (1995) – Idrogeologia dell’area del centro storico di Roma. In: Funiciello R. (coord. scient.), La Geologia di Roma – Il centro storico. Memorie Descrittive della Carta Geologica d’Italia, 50, 179 - 211.

Siti web:
Roma Città delle Meraviglie. Rione Trastevere - Fontana dell'Acqua Lancisiana. http://roma.mysupersite.it/fontanediroma/rionetrastevere/gianicolense


Congresso SGI SIMP - Catania 2018 : Geosciences for the environment, natural hazards and cultural heritage

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Congresso SGI SIMP - Catania 2018
“Geosciences for the environment, natural hazards and cultural heritage”



Si è concluso lo scorso venerdì 14 settembre il Congresso SGI SIMP che ha visto la presenza, a Catania, di centinaia di geoscienziati impegnati nella diffusione, promozione e discussione, in numerose e diversificate sessioni scientifiche, delle loro ricerche.

La Sezione di storia delle geoscienze della Società Geologica Italiana ha proposto una sessione nella quale presentare le attività che i soci afferenti sviluppano nelle loro attività di ricerca.
La sessione 38 History of Geosciences and Geoethics: the right way for social responsibility, aveva l’obiettivo di raccogliere i diversi contributi per mostrare come, partendo dagli scienziati – naturalisti del ‘600-‘700 e arrivando ai giorni nostri, il rapporto fra “conoscenza” e “natura” fosse mutato da una posizione di “attenzione” per la comprensione dei fenomeni naturali fino a una diffusa presunta posizione di “controllo dei fenomeni” da parte di molti scienziati moderni.
Significativa per il tema trattato è stata la location del congresso: il Monastero dei Benedettini di Catania è il luogo nel quale, nel 1693, venne tentata la deviazione del flusso di lava proveniente dai coni dei Monti Rossi, sul versante dell’Etna, per proteggere lo stesso monastero.




I numerosi interventi, orali e poster, hanno inquadrato bene il tema della sessione, offrendo momenti di discussione e spunti di riflessione, che probabilmente proseguiranno incrementando il livello conoscitivo dei temi trattati, anche attraverso il recupero di informazioni d’archivio e bibliografiche. Lo sviluppo completo degli argomenti e il loro approfondimento presuppongono una prossima, più ampia, possibilità di incontro e discussione sul tema affrontato.
La partecipazione alla sessione è stata molto ampia, grazie anche all’attività di diffusione dell’informazione che la Società Geologica Italiana sta sviluppando attraverso un coinvolgimento molto ampio nella comunità scientifica, in generale, ma anche e soprattutto tra i giovani ricercatori.

Crediamo di ritenere che anche il lavoro sviluppato dalla Sezione di storia delle geoscienze, focalizzato nella sessione 38, abbia contribuito, in modo non trascurabile, a stimolare questo coinvolgimento.


Contributi orali
  • Romano M.: Inventor, Engineer and Earth Scientist in a single brushstroke: Leonardo da Vinci and the earliest conception of sustainable land management on a constantly changing Planet
  • Macini P.: Well construction and underground fluids in pre-industrial ages: Scientific observations, ethical speculation and medical contributions of Bernardino Ramazzini on the health and safety of Putearii (water well diggers)
  • Hamilton M.: The research of the western Tauern window between 1894 and 1898 in the documents of the mineralogist and petrographer Friedrich Becke. A project of the “Österreichische Akademie der Wissenschaften“
  • Foresta Martin F.: Marcello Carapezza (1925-1987), Scientist and Humanist
  • Branca S. & Abate T.: The hypotheses of Jean Hoüel (1735-1813) on the formation of Etna. The evolutionary model of the volcano in the representation of the CXIX planche
  • Vaccari E.: The role of the institutions for the birth of the professional geologist between the 18th and the 20th century
  • Barale L., Fioraso G. & Mosca P.: The role of geological studies in large infrastructural projects in the 19th century - some examples from NW Italy
  • Boscaino G. & Boscaino M.: The geology between past and present: cultural heritage and the current social value of geosciences. The tragedy of the Rigopiano Hotel


Contributi poster
  • Alimenti S. & Lupi R.: Policy, economy and geosciences in the debate about Fucino and Trasimeno lakes (1780-1870 ca.)
  • Cubellis E., Luongo G. & Obrizzo F.: Sciences of Laws and Sciences of Processes for  Earth Science
  • De Caterini G. & Radogna P.V.: Critique of Practical Geology
  • Di Cencio A., Mori G., Casati S. & Nardi M.: Paleontherapy - the new method in field of medical geology for the therapy of young disturbances
  • Pantaloni M., Console F. & Motti A.: The “rebirth” of the Torbidone River (Norcia Plain, Umbria): a historic and geoethic approach
  • Pinarelli L., Piccardi L. & Montanari D.: The social value of geological knowledge in the supernatural narratives of the ancient world: some case studies
  • Sudiro P.: The Expanding Earth: a disproved scientific hypothesis surviving its falsification


Geoitaliani alla Settimana del Pianeta Terra – “Il Drizzagno e l’ansa morta di Spinaceto lungo il Tevere”

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di Marco Pantaloni

La “Settimana del Pianeta Terra, l'Italia alla scoperta delle Geoscienze"è un festival scientifico che coinvolge tutta l'Italia e che, dal 2012, rappresenta il principale appuntamento per la diffusione della cultura geologica in Italia.
Geologi e naturalisti, membri della Sezione di storia delle geoscienze, hanno organizzato il giorno 20 ottobre 2018 un escursione sul tema “Il Drizzagno e l’ansa morta di Spinaceto lungo il Tevere: caratteri geologici ed ecosistemi fluviali a confronto”, del quale la nostra sezione aveva già parlato (link).


L’obiettivo dell’escursione è stato quello di porre all’attenzione dei cittadini i caratteri peculiari del territorio, focalizzando gli aspetti geologico-ambientali, sfruttando le conseguenze dettate dalla realizzazione di un opera, avvenuta nel 1940, che ha causato l’abbandono, da parte del Fiume Tevere, di un ampio tratto del suo percorso, il meandro di Spinaceto.


Percorrendo brevi e agevoli sentieri, spesso posti a poca distanza dalle nostre abitazioni, è possibile osservare, nei residui lembi di ambienti naturali ancora preservati dall’urbanizzazione, le caratteristiche geologiche del territorio, l’evoluzione dello stesso in seguito agli interventi dell’uomo e come, nell’arco di pochi anni, la natura tende a riappropriarsi delle superfici non antropizzate.
Il caso del meandro di Spinaceto, abbandonato a seguito dell’intervento di rettifica dell’alveo del Tevere per finalità idrauliche effettuato, è un esempio tipico di questa evoluzione ambientale.
Durante l’escursione sono stati descritti i caratteri geologici e geomorfologici del territorio e i cambiamenti sia all’ambiente che all’ecosistema indotti dalle attività umane.
Dal punto di osservazione privilegiato costituito dal Ponte monumentale di Mezzocammino, sul GRA, è stato possibile osservare l’opera del taglio del meandro di Spinaceto del Tevere, il cosiddetto Drizzagno. L’opera ha completato l’importante progetto di sistemazione idraulica avviato alla fine del ‘800 con la costruzione dei “Muraglioni” all’interno del centro urbano, eliminando la grande ansa che, da quel momento, è stata abbandonata dalle acque fluviali. Grazie al materiale documentale conservato negli archivi, è stato possibile ricostruire l’immenso lavoro per la realizzazione dell’opera, della quale molte tracce sono ancora oggi visibili, grazie anche all’ausilio di cinegiornali dell’epoca.



Tuttavia, nonostante il forte impatto antropico e il pesante condizionamento della presenza della più importante via di comunicazione di Roma, il Grande Raccordo Anulare, è stato possibile osservare dei lembi di vegetazione naturale (con molte specie tipiche degli ambienti fluviali presenti nella lista degli habitat protetti all’interno della Direttiva Habitat quali le foreste e boscaglie a salice e pioppo) oltre a piante naturalizzate come platani e gelsi ed invasive come la robinia; con i partecipanti all’escursione si è riuscito poi a camminare nell’antico letto del fiume e “toccare con mano” i sedimenti trasportati dal Tevere nell’arco dei tempi geologici e “ricostruito” in sito il percorso del fiume anche grazie ai residui di vegetazione ancora presenti sulle sponde fluviali ormai abbandonate.

foto di Veruska Sebastianelli


foto di Paola Veronese
L’evento, partecipato da circa 100 persone, si è svolto attraverso l’uso di canoe, di biciclette o a piedi. Partendo da diversi punti della città, i tre gruppi si sono poi incontrati in corrispondenza del Ponte monumentale di Mezzocammino, che di per sé costituisce un opera degna di rilievo storico-architettonico.

Foto di Paola Veronese
foto di Paola Veronese
foto di Paola Veronese
L’evento è stato organizzato con la collaborazione tra ISPRA, la Sezione di storia delle geoscienze della Società GeologicaItaliana, la Federazione Italiana Amici della Bicicletta (FIAB), l’associazione “Regina Ciclarum”, l’Associazione “Discesa Internazionale del Tevere”.





Quattro Novembre 2018

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scritto da Alessio Argentieri e Marco Pantaloni



«Comando Supremo, 4 novembre 1918, ore 12 Bollettino di guerra n. 1268:
La guerra contro l'Austria-Ungheria che, sotto l'alta guida di S.M. il Re, duce supremo, l'Esercito Italiano, inferiore per numero e per mezzi, iniziò il 24 maggio 1915 e con fede incrollabile e tenace valore condusse ininterrotta ed asprissima per 41 mesi, è vinta. La gigantesca battaglia ingaggiata il 24 dello scorso ottobre ed alla quale prendevano parte cinquantuno divisioni italiane, tre britanniche, due francesi, una cecoslovacca ed un reggimento americano, contro settantatré divisioni austroungariche, è finita. La fulminea e arditissima avanzata del XXIX Corpo d'Armata su Trento, sbarrando le vie della ritirata alle armate nemiche del Trentino, travolte ad occidente dalle truppe della VII armata e ad oriente da quelle della I, VI e IV, ha determinato ieri lo sfacelo totale della fronte avversaria. Dal Brenta al Torre l'irresistibile slancio della XII, della VIII, della X armata e delle divisioni di cavalleria, ricaccia sempre più indietro il nemico fuggente. Nella pianura, S.A.R. il Duca d'Aosta avanza rapidamente alla testa della sua invitta III armata, anelante di ritornare sulle posizioni da essa già vittoriosamente conquistate, che mai aveva perdute. L'Esercito Austro-Ungarico è annientato: esso ha subito perdite gravissime nell'accanita resistenza dei primi giorni e nell'inseguimento ha perduto quantità ingentissime di materiale di ogni sorta e pressoché per intero i suoi magazzini e i depositi. Ha lasciato finora nelle nostre mani circa trecentomila prigionieri con interi stati maggiori e non meno di cinquemila cannoni. I resti di quello che fu uno dei più potenti eserciti del mondo risalgono in disordine e senza speranza le valli che avevano discese con orgogliosa sicurezza.»
(Armando Diaz, comandante supremo del Regio Esercito)

Con il famosissimo Bollettino della Vittoria, “firmato Diaz” e scritto a Padova presso Villa Giusti, si chiudeva un secolo fa per l’Italia la Prima Guerra Mondiale. Queste parole (il cui autore sembra in realtà essere stato il Generale Domenico Siciliani, che del Comando Supremo era Capo ufficio stampa) sono scolpite nel marmo in tutte le municipalità del Paese.
A coronamento ideale di un percorso iniziato nel 2014, la Sezione di Storia delle Geoscienze della Società Geologica Italiana vuole celebrare oggi questa ricorrenza, ripercorrendo le iniziative con cui si è contribuito alle celebrazioni del Centenario della Grande Guerra.
L’idea embrionale di avventurarsi su questo impervio terreno è stata lanciata, quasi per caso, da Simone Fabbi e Marco Romano nell'ottobre 2013 a Chieti, durante il convegno di commemorazione del paleontologo e stratigrafo Giovanni Pallini. Da quello spunto è partita (rigorosamente alla garibaldina) un’organizzazione culminata, in occasione del centenario dell'ingresso dell'Italia nella Grande Guerra, con il convegno "IN GUERRA CON LE AQUILE. Geologi e cartografi sui fronti alpini del Primo Conflitto Mondiale" del 2015. Nella meravigliosa locationdel MUSE- Museo delle Scienze di Trento e poi delle montagne dolomitiche (incarnanti alla perfezione, per collocazione geografica e mission, lo spirito del progetto) si è tenuto perciò tra il 17 e il 20 Settembre 2015 il primo evento nazionale - o meglio transnazionale- interamente curato e sviluppato dalla Sezione di Storia delle Geoscienze. L'iniziativa congressuale, realizzata in collaborazione tra Società Geologica Italiana, MUSE, ISPRA e GBA - Geologische Bundesanstalt austriaco, ha ottenuto il patrocinio del Consiglio Nazionale dei Geologi e della Presidenza del Consiglio dei Ministri - Struttura di missione per la commemorazione del centenario della Prima Guerra Mondiale”.

La giornata conclusiva del Convegno “In guerra con le aquile” presso il MUSE di Trento (Settembre 2015)



Nella narrazione si è scelto di seguire un filo conduttore che, dopo oltre un secolo, provasse a chiudere idealmente un percorso attraverso le sue fasi storiche.
Nella prima fase analizzata, a cavallo tra la fine del XIX e l'inizio del XX secolo, la cooperazione e scambio di conoscenze tra gli studiosi di geologia della Mitteleuropaportò a impostare la moderna interpretazione geologica dell'Arco alpino, da cui è scaturita la comprensione dei fenomeni orogenetici a livello globale.
Dopo questa “età dell’oro” il Primo Conflitto Mondiale ha rappresentato la “grande frattura” che portò - tra le innumerevoli sciagure- gli scienziati delle nazioni divenute nemiche a fronteggiarsi dai due versanti delle Alpi, costringendoli a mettere il proprio sapere al servizio della distruzione, anziché del progresso e della conservazione del territorio. Il fenomeno, come è tristemente noto, tornò a ripetersi a distanza di un ventennio: se nella Grande Guerra fu in gran parte la geologia a fare la differenza tra gli schieramenti, sui fronti bellici di montagna e di pianura, con il Secondo Conflitto Mondiale sarebbero state poi la fisica e la tecnologia a vivere questa dilaniante esperienza.
Quello che è emerso nettamente dai lavori è come gli insipienti e presuntuosi vertici militari e politici del Regno d’Italia, non comprendendo l’importanza del contributo scientifico e geologico-tecnico, utilizzarono i propri scienziati come carne da cannone, al pari degli altri poveracci mandati al massacro. Questa lungimiranza fu invece propria dei comandi austroungarici, che valorizzarono i propri specialisti inquadrati nei ranghi militari. Poi, come è noto, furono altri eventi a decidere le sorti del conflitto.

Si è voluto infine approfondire il significato dell'eredità che la Prima Guerra Mondiale ha lasciato ai territori che ne furono scenario. Per dare un piccolo contributo alla chiusura definitiva di una storia di divisione si è parlato anche di un progetto di condivisione, che rinnova e rinsalda la collaborazione tra Italia e Austria a cento anni di distanza. In questo percorso virtuoso è stato ricordato anche il ruolo fondamentale delle iniziative di tutela e valorizzazione dei beni culturali ed ambientali, intesi come strumenti di crescita socio-economica di una comunità e di sviluppo sostenibile del territorio.
Per tali ragioni il Convegno si è articolato in quattro sessioni tematiche (“Geologia e Grande Guerra”; “La montagna studiata”; La montagna addomesticata e ferita”; “La montagna ricorda: eventi, luoghi, personaggi”) e una tavola rotonda sul tema “La montagna ricorda. Gestione e condivisione del patrimonio culturale come strumento per la tutela e la valorizzazione del territorio”. L'escursione post-congresso ha attraversato, tra venerdì 18 e domenica 20 settembre 2015, alcuni dei luoghi simbolici della Grande Guerra sui fronti alpini: Passo Gardena, Val Badia, Passo Falzarego e Passo Valparola, Forte Tre Sassi, Piccolo Lagazuoi, Rovereto, la Vallarsa, il Forte Pozzacchio/Valmorbia.

L’escursione del 19 Settembre 2015 al Piccolo Lagazuoi.
Questa era la composizione, sull'asse Roma- Padova- Trento, del Comitato scientifico-organizzatore:
  • Alessio Argentieri (Città Metropolitana di Roma Capitale)
  • Marco Avanzini (MUSE)
  • Fabiana Console (ISPRA, Dip. attività bibliotecarie, documentali e per l’informazione)
  • Giorgio Vittorio Dal Piaz (Università di Padova)
  • Simone Fabbi (Sapienza, Università di Roma)
  • Marco Pantaloni (ISPRA, Servizio Geologico d’Italia)
  • Fabio Massimo Petti (Società Geologica Italiana)
  • Marco Romano (Sapienza, Università di Roma)
  • Giovanni Rotella (Città Metropolitana di Roma Capitale)
  • Isabella Salvador (MUSE)
  • Rossana Tedesco (MUSE)
  • Riccardo Tomasoni (MUSE)
  • Alessandro Zuccari (Società Geologica Italiana)

Con il convegno "IN GUERRA CON LE AQUILE” si è voluto quindi onorare la memoria dei geologi e cartografi che, a vario titolo, parteciparono alla Prima Guerra Mondiale. L’obiettivo dichiarato era quello di tentare di chiudere idealmente, attraverso le Alpi, un percorso costellato ancora oggi di fratture, suture e ferite aperte, reali e virtuali. In una "lettura palindroma" del principio dell'attualismo, si è ricordato ancora una volta il passato quale chiave del presente e del futuro.

Per cristallizzare il contributo della comunità geologica alle proposte commemorative e al recupero della memoria storica degli eventi legati al conflitto, gli interventi sono confluiti in forma di short notes nel Volume 36 dei Rendiconti Online della Società Geologica Italiana (editors: A. Argentieri, F. Console, S. Fabbi, M. Pantaloni, F.M. Petti, M. Romano, G. Rotella, A. Zuccari).


A distanza di oltre tre anni dall’evento, l’occasione ci è gradita per rinnovare i ringraziamenti a chi ha partecipato o sostenuto il progetto: il Direttore del MUSE Michele Lanzinger, senza la cui disponibilità e sensibilità nulla sarebbe stato possibile; le Autorità civili e militari intervenute; i Chairmen delle sessioni scientifiche Gian Battista Vai, Carlo Doglioni, Camillo Zadra e Giorgio Vittorio Dal Piaz e il moderatore della Tavola rotonda Franco Foresta Martin; tutti i relatori del convegno e gli autori delle note confluite negli Atti; gli sponsor Fondazione Dolomiti UNESCO, Fondazione Cassa di Risparmio di Trento e Rovereto e Società Autostrade del Brennero.

Per onestà intellettuale bisogna confessare che un rammarico c’è, per non essere riusciti a concretizzare quella che sarebbe stata la ciliegina sulla torta. Nella fase di ricerca di sostegni e sponsorizzazioni ci siamo rivolti a gran parte delle aziende produttrici di grappe del Trentino, proponendogli di organizzare un momento conviviale di degustazione di distillati che precedesse la tavola rotonda del 17 settembre. Il messaggio di invito si chiudeva così:
“Nelle infinite storie della Guerra dei nostri nonni, costellate di difficoltà, sofferenze e sacrifici in molti casi estremi, forse gli unici momenti di conforto in alta quota li portò la grappa. Sarebbe perciò un modo originale di onorare la memoria di protagonisti e comprimari della Grande Guerra proporre un racconto della lunghissima tradizione delle distillerie trentine.”
L’idea c’era, ma non è stata raccolta. Peccato.


Dato l’interesse riscosso dal convegno, si è deciso di riproporne una “successione condensata” con una nuova omonima conferenza a Roma nel Gennaio del 2016 presso il Dipartimento di Scienze della Terra- SAPIENZA- Università di Roma, che ha visto una nutrita partecipazione. La Sezione di Storia delle Geoscienze della Società Geologica Italiana ha così proseguito le iniziative commemorative e di recupero della memoria storica degli eventi legati al conflitto, in collaborazione con Sapienza- Università di Roma, Città Metropolitana di Roma Capitale, ISPRA e Ordine dei Geologi del Lazio. La più giovane del gruppo, Giulia Innamorati, è stata incaricata del primo intervento dedicato al resoconto dell’escursione.

Oltre ai convegni e al volume ROL 36 sono stati prodotti dai membri della Sezione altri lavori sul tema:
·        A. Argentieri Francesco Penta, a 1899 boy - Francesco Penta, ragazzo del '99.Acque Sotterranee - Italian Journal of Groundwater (2017) - AS22-297: 69 – 71

Per concludere questo articolo rimandiamo all’icona del progetto, il video "In guerra con le Aquile", ideato e realizzato da Marco Romano, sia nella prima versione con cui è stato promosso inizialmente il convegno
sia nella seconda release più estesa di cui è stato attore protagonista il socio Marco Lesti
Rivedere queste immagini è ogni volta un’emozione forte per tutti noi del gruppo GEOITALIANI che abbiamo avuto la fortuna di vivere integralmente l’esperienza unica di questo progetto.
Grazie, lettori e lettrici di GEOITALIANI, continuate a seguirci.
Per voi la poesia “Sono una creatura” di Giuseppe Ungaretti (contenuta nella raccolta “Il porto sepolto” del 1916), che nel video è declamata dalla inconfondibile voce di Vittorio Gassman:
Come questa pietra
del S. Michele
così fredda
così dura
così prosciugata
così refrattaria
così totalmente
disanimata
come questa pietra
è il mio pianto
che non si vede
La morte
si sconta
vivendo.

Estrosi geologi, Primo Atto: LA SETTIMA ARTE

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di Alessio Argentieri

Le fondamenta del progetto Geoitaliani poggiano sulle figure quasi leggendarie dei precursori delle discipline geologiche nel nostro Paese.
Come già ricordato su queste pagine (http://www.geoitaliani.it/2013/07/geoitalians-did-it-better-ovvero-del.html), è indiscusso che le scienze naturali si siano sviluppate in Italia a partire dal Rinascimento. I protagonisti di questi albori furono scienziati poliedrici, attivi in campi disparati, dall’anatomia alla botanica, dalla chimica alla medicina, dalla zoologia alla geologia. Alchimisti, metallurgisti, sezionatori di cadaveri, forse anche un po’ stregoni.
Questa tendenza alla multiformità di interessi, la cui massima espressione si incarnò in Leonardo da Vinci, deve essersi propagata nel tempo e nello spazio, lasciando una traccia nel “DNA virtuale” dei geologi italiani, sino ai giorni nostri.
Ecco perciò un casuale, e ovviamente incompleto, repertorio di personaggi che, nel passato recente e prossimo, hanno sviluppato e coltivato interessi paralleli alla passione per la geologia. E’ una narrazione basata in gran parte su informazioni carpite, suggerite o caparbiamente cercate e che, giunte una dopo l’altra, hanno portato il testo ad esser più volte riveduto e aggiornato. L’auspicio è che questa sia da stimolo per analoghe storie di “vite parallele”, con cui altri colleghi e colleghe vorranno a proseguire il filone sulle pagine di GEOITALIANI.

Per cominciare, ecco a voi i geologi transitati, e in alcuni casi rimasti, nel magico mondo della cinematografia. Fatta la premessa, non resta perciò che proferire le parole magiche: “MOTORE! PARTITO! CIAK! AZIONE!

PRIMO ATTO- La Settima Arte: geologi attori
E’ d’obbligo iniziare la rassegna di presenze sul grande schermo con la foto che per prima ha ispirato questo racconto: tre giovani prestanti in costume di scena, a formare una piccola piramide umana (Fig. 1).

Fig. 1 - Sul set di Ben Hur: a sinistra Ernesto Centamore, a destra Biagio Camponeschi e sopra di loro Minerba, un loro compagno di studi.

Sono Ernesto Centamore (che sarebbe divenuto prima rilevatore del Servizio Geologico d’Italia e poi professore presso le Università di Camerino e Roma- La Sapienza) e Biagio Camponeschi(futuro docente presso la Facoltà di Ingegneria della Sapienza e all’Università di Perugia), giovani figuranti del più famoso Colossal della storia del cinema: “BEN HUR”, prodotto dalla Metro Goldwyn Mayer e realizzato a Roma, negli studi di Cinecittà, tra il 1958 e il 1959 (Fig.2). 

Fig. 2 - La locandina di Ben Hur (1958).
 Per dare vita alla storia del principe ebreo Judah Ben Hur (protagonista del romanzo omonimo scritto da Lewis Wallace, generale dell’Esercito dell’Unione durante la Guerra di secessione americana) la produzione scelse come interprete Charlton Heston e come regista William Wyler. La pellicola, che avrebbe poi conquistato 11 premi Oscar, richiese uno sforzo economico imponente: 15 milioni di dollari, una parte dei quali utilizzata per pagare i circa 50.000 tra generici, figuranti e comparse reclutati a Roma. Tra di loro, gli aitanti giovanotti nella foto.
Poche sere fa è stato un privilegio, per noi incanutiti e stempiati ex giovani allievi di Ernesto, ritrovarsi a distanza di anni con lui in un contesto conviviale (habitat naturale per l’uno e per gli altri) ed ascoltare i racconti della sua esperienza sul set come “generico extra di prima categoria” in BEN HUR. Con tale qualifica egli ricoprì durante le riprese più ruoli: pretoriano con lancia e scudo piantato solidamente davanti alla meta; pirata; tamburino portainsegne. Memorabili i racconti della scene della Via Crucis, nelle esotica location simbruina degli Altipiani di Arcinazzo, e della battaglia navale nel vascone di Cinecittà, con il pirata Biagio Camponeschi che liscia tragicamente la passerella durante l’arrembaggio, precipitando lungo la murata dell’imbarcazione. Ci vengono perciò in mente le parole di Walter Alvarez: “my friend Ernesto Centamore, a giant Italian with a gargantuan appetite for life, for food, and for geology” (in “T. rex and the crater of Doom”, 1997). Una definizione concepita sulle montagne umbro-marchigiane negli anni ’70, che ancora oggi gli si attaglia alla perfezione.

Restando in campo cinematografico, un laureato in Scienze Geologiche del Dipartimento di Scienze della Terra dell’Università di Camerino ha scelto la passione della gioventù, la recitazione. E’ il camerte Cesare Bocci (fig. 3), classe 1956, tra i cui meriti artistici è d’obbligo citare in primis l’aver dato meravigliosamente corpo al Vicecommissario Mimì Augello: senza di lui, non avrebbe ragion d’essere neanche l’amato Commissario Salvo Montalbano. 

Fig. 3 - Cesare Bocci.

A lettrici e lettori di GEOITALIANI regaliamo qui - grazie a fonte confidenziale attendibile- una chicca sulle prime interpretazioni di Bocci, abile a cambiar dialetto: durante una serata di un’escursione di universitari camerti, Cesare si produsse assieme al compagno di studi Peppe Vella in una applaudita imitazione della coppia formata dal romano Ernesto Centamore e dal gallurese Giovanni Deiana (coraggiosamente fatta davanti ai due originali!). Ricordiamo infine che Cesare, oltre a prestare il proprio volto a molte iniziative benefiche, è stato anche testimonial della Seconda edizione della “Settimana del Pianeta Terra” (2011) e anche della Sesta tenutasi quest’anno dal 14 al 21 Ottobre (video spot 2018: https://www.settimanaterra.org/video-spot).

Spariamo adesso un’altra cartuccia formidabile. Negli anni ‘50 sul lago Maggiore si doveva fare veramente una bella vita; lascio che ne assaporiate l’atmosfera attraverso le parole di chi ce lo ha raccontato: “Sono nato e cresciuto sul Lago Maggiore, a Stresa, e nel primo dopoguerra c'erano il casinò, le prime elezioni di Miss Italia e tanto movimento, per cui era normale che girassero tanti film, e che noi ragazzi del paese venissimo invitati a partecipare, come comparse e talora come caratteristi. Così sono stato comparsa in “Una notte con te”, “Cronaca di un amore”, e altri di cui non ricordo il titolo, mentre ho avuto una particina in “Miss Italia”, dove rappresentavo uno studente secchione, con gli occhiali, fan di una Miss Italia che era la Gina Lollobrigida (che io già conoscevo di persona). Quando mi è capitato, dopo cinquanta anni, di vedere il film, non ho più ritrovato alcune scene che avevo girato, ma avevo conservato delle locandine, tra cui quella che ti ho trasmesso. Tutto qui, allora come futuro geologo andavo a mezzogiorno alle cave di Baveno, quando facevano saltare le mine, a cercare tra i massi frantumati dei bei cristalli di quarzo e ortoclasio. Ma ero ancora in prima liceo.
Quell’adolescente, signore e signori, era Antonio Praturlon, futuro membro della “trinità geologica” con Colacicchi e Castellarin, che in fig. 4 potete ammirare nella locandina di “Miss Italia” del 1950. “Chi se lo fosse mai creso!”, per citare Pippo Franco, un autore di riferimento per noi goliardici studenti di geologia a Roma tra gli anni ‘70 e ’80.

Ma ecco, inaspettato, un altro piccolo coup de théâtre con cui il redattore contraccambia il regalo che ci ha fatto il Prat: lo sapete chi era lo sceneggiatore di “Miss Italia”? Vittorio Nino Novarese, vincitore poi di due premi Oscar come costumista, ma soprattutto figlio del grande geologo Vittorio Novarese!!!

Fig. 4 - Un adolescente Antonio Praturlon (primo da sinistra, con gli occhiali in mano)
nella locandina del film “Miss Italia” del 1950.

Il legame tra geologia e cinema ci porta ora a tre fratelli originari di Amelia, presso Terni:Odoardo, Piero e Mario Girotti, tutti e tre con esperienze di recitazione. Per Mario, noto con il nome d’arte di Terence Hill (fig. 5), una lunghissima carriera iniziata coi Musicarelli degli anni ’50, poi il grande successo tra la fine dei anni ’60 e i ‘70 come cowboy (spesso sugli scenari delle nostre montagne: cowboys nell'Appennino Laziale-Abruzzese ).

Fig. 5 - Terence Hill con Bud Spencer.
La longeva professione di attore avrebbe poi riportato a Terence, dopo molti anni, una nuova celebrità quale prete in bicicletta, con tonaca e baschetto, sui bellissimi scenari dell’Umbria, quelle “Montagne di San Francesco” tanto care ai geologi di cui abbiamo parlato in una nota breve del 2017 (link http://jmes.it/index.php/jmes/article/view/115).
Veniamo al fratello maggiore Odoardo Girotti (fig. 6), geologo quaternarista e già professore presso l’Università di Roma “La Sapienza”, e alla sua presenza cinematografica di gioventù in “Viale della speranza” di Dino Risi (1952; fig. 7), il cui protagonista era Marcello Mastroianni. Mi concedo qui una piccola divagazione: Marcello, in virtù del diploma di perito edile, operò durante la Seconda Guerra Mondiale come disegnatore tecnico presso l’Istituto Geografico Militare di Firenze; un'altra sottile liaison tra cinema e discipline della Terra. Mi piace aggiungere che Marcello lavorò poi nel dopoguerra presso la casa di produzione cinematografica britannica “Eagle-Lion”; il suo capoufficio a Roma era mio nonno paterno Mario Argentieri che, intuita la scarsa attitudine di Mastroianni per la carriera impiegatizia, lo licenziò invitandolo a dedicarsi a quella artistica (cosa di cui Marcello, molti anni dopo, si ricordava con gratitudine, come io e i miei familiari avemmo la fortuna di sentire direttamente da lui).

Ritornando sul filone principale menzioniamo infine, per completezza di informazione, che il minore dei fratelli Girotti, Piero, recitò come attore in “Il padrone sono me!” di Franco Brusati (1955), con Paolo Stoppa e Andreina Pagnani.

Fig. 6 - Odoardo Girotti.
Fig. 7 - Locandina di “Viale della speranza”.

Il paleontologo Carlo Sarti, classe 1962, nativo di Budrio e laureatosi all’Università di Bologna, è il curatore del Museo Geologico “Giovanni Capellini” del capoluogo emiliano. Ricercatore, scrittore e divulgatore, egli di recente ha anche collaborato con la nostra Sezione di Storia delle Geoscienze come componente del board dei revisori per il volume “Tre secoli di Geologia in Italia”, Numero 44 dei Rendiconti Online della Società Geologica Italiana (marzo 2018). Oltre a questo, Carlo è anche regista e sceneggiatore di lungometraggi e cortometraggi; tra i titoli della sua filmografia citiamo “Goodbye Mr. Zeus” del 2009 e “La finestra di Alice” del 2013.

Viene poi naturale menzionare i giovani componenti del gruppo base di Roma della Sezione di Storia delle Geoscienze (Marco Romano con Simone Fabbi, Marco Lesti e Leonardo Macelloni), che si sono cimentati nei due “cortissimimetraggi” dal titolo "In guerra con le Aquile", trailer del convegno "IN GUERRA CON LE AQUILE. Geologi e cartografi sui fronti alpini del Primo Conflitto Mondiale" di Trento del 2015. Ecco i riferimenti per visionare la prima versione con cui è stato promosso inizialmente il convegno
e la seconda release di cui è stato attore protagonista il socio Marco Lesti


Un altro personaggio da menzionare tra gli estrosi geologi in scena è Gildo Di Marco, abruzzese di Sulmona, classe 1946. Studente di Scienze Geologiche alla Sapienza di Roma negli anni ’60, si laureò sotto la guida di Ruggero Matteucci con una tesi in micropaleontologia sulla successione laziale-abruzzese. Gildo, persona dai molti interessi, divenne poi attore cinematografico e insegnante nella sua città; a partire dal 1995 e sino a poco tempo fa ha guidato la manifestazione rievocativa “Giostra cavalleresca di Sulmona”. Tra i lavori cinematografici più recenti di Gildo menzioniamo Mala tempora (2008) di Stefano Amadio, Baùll di Daniele Campea (2014), Un’icona d’argento (2017). La sua carriera artistica è iniziata e si è sviluppata tra gli anni ’60 e ’70, quando prese parte come attore caratterista a numerose pellicole di genere: Spaghetti-western (I Quattro dell’Ave Maria, 1968; Un esercito di cinque uomini, 1969; Arizona si scatenò... e li fece fuori tutti!, 1970; Continuavano a chiamarlo Trinità, 1971; Gli fumavano le colt… lo chiamavano Camposanto, 1971; Uomo avvisato mezzo salvato… Parola di Spirito Santo, 1971; Sentivano uno strano, eccitante puzzo di dollari, 1973); horror italiani degli anni ’70 con Dario Argento (L'uccello dalle piume di cristallo, 1970; 4 mosche di velluto grigio, 1971; Il tram, 1973); film drammatici come La bellissima estate (1974) di Sergio Martino; commedie quali Armiamoci e partite (1971) con Franchi e Ingrassia, Il terrore con gli occhi storti (regista Steno e protagonista Enrico Montesano, 1972), ma soprattutto Brancaleone alle crociate (1970). In quest’ultima pellicola, capolavoro del cinema italiano firmato da Mario Monicelli, Agenore Incrocci e Furio Scarpelli, Gildo era tra i membri dell’armata di Brancaleone in Terra Santa, ricoprendo il ruolo dello storpio ma vedente sempre portato, in una bizzarra simbiosi, a cavacecio dal cieco (Fig. 8). 

Fig. 8 - Gildo Di Marco in “Brancaleone alle Crociate” (1970),

secondo da sinistra in groppa al suo “destriero”.
E’ lui l’oggetto di una delle migliori battute del film, magistralmente recitata da Adolfo Celi, il re Boemondo che parla in siculo a rima baciata, come nel Teatro dei Pupi: sul campo di battaglia sotto le mura di Gerusalemme Boemondo, mentre passano in rassegna l’armata pronta alla pugna, chiede a Brancaleone: “Veni cuntra a li nimici/ puri chiddu a cavacici?”.

Tutto assolutamente sublime, dall’inizio dell’avventura di GEOITALIANI poter narrare queste vicende è quanto di meglio ci sia capitato. Per fortuna ancora ce n’è da dire…

…TO BE CONTINUED…

CREDITI
A conclusione del Primo Atto della rassegna di estrosi geologi, ed in anticipo per gli Atti che seguiranno su GEOITALIANI, ringrazio dal profondo del cuore per le preziose informazioni e/o la documentazione fotografica: Silvano Agostini, Ernesto Centamore, Domenico Cosentino, Gildo Di Marco, Francesco Dramis, Francesca e Fabio Funiciello, Gianni Lombardi, Umberto Nicosia, Antonio Praturlon, Umberto Risi, Massimo Santantonio. E la mia famiglia, che mi ha trasmesso una inguaribile passione per il cinema. (A.A.)

Natale 2018


La pietra del Diavolo a Santa Sabina all’Aventino

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di Marco Pantaloni

La chiesa di Santa Sabina all'Aventino, costruita nel V secolo sulla tomba della Santa, è una delle chiese paleocristiane meglio conservate, nonostante i successivi restauri.
Meta di flussi ininterrotti di visitatori, è una delle basiliche minori di Roma e, indubbiamente, merita una visita approfondita, sia per i caratteri architettonici che per le decorazioni musive.
Affascinati dagli elementi decorativi più importanti, pochi vengono attratti da una piccola, curiosa pietra poggiata su una colonna posta sulla parete di fondo della chiesa. Sulla sinistra della porta principale, appare un rocchio di colonna tortile sul quale è poggiata una grossa pietra nera, lucidata dal tempo e dallo sfregamento dei fedeli. La leggenda ricorda questa pietra come “Lapis diaboli”, cioè pietra del diavolo.



La leggenda vuole questa pietra legata alla devozione di San Domenico; il Santo spagnolo, fondatore dell’Ordine dei frati predicatori, cui la Chiesa di Santa Sabina è sede della curia generalizia, spesso si recava nella chiesa sull’Aventino pregando su una lapide che copriva il sepolcro di alcuni martiri cristiani.
Il Diavolo, però, non tollerando il fervore religioso di San Domenico, gli scagliò contro proprio questo blocco roccioso che però non riuscì a colpire il frate, grazie alla “protezione dall’alto”; la pietra, quindi, colpì la lastra sepolcrale rompendola in numerosi frammenti.
Si tratta, come molte altre pietre soggette a devozione, di un blocco sferoidale di basalto, sulla cui superficie si trovano alcuni fori, due allineati nella parte centrale e uno sull’esterno. La presenza dei fori sarebbe dovuta all’azione della presa delle mani diaboliche sul blocco. Gli archeologi suppongono un origine più prosaica per questa roccia, attribuendola ad un contrappeso di una bilancia.
I frammenti della lastra, ricomposti, oggi si trovano nella Schola Cantorum della chiesa. Andando oltre la leggenda, il reale motivo della frammentazione della lastra si deve all’architetto Domenico Fontana nel 1527, che operava sotto papa Sisto V, che ruppe la lastra per spostare i resti mortali dei martiri in un'altra sede.

All’esterno della chiesa, a fianco del cancello d’ingresso al panoramico “Giardino degli aranci”, si trova il mascherone che, fino al 1827, rappresentava la mostra dell’“Acqua lancisiana”, ai piedi del Gianicolo, per la distribuzione dell’acqua nella fonte di distribuzione pubblica (vedi post: L’acqua lancisiana)








Per saperne di più



Storie (di uomini e rocce) in bianco e nero: Portoro

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di Giovanna Baiguera



Fig. 1 – Pavimento.
Locanda L’Ombrosa, Bottagna (SP).


200 milioni di anni fa, inizio Giurassico.
Il supercontinente Pangea sta andando a pezzi. Lo attraversano spaccature dove stanno per formarsi nuovi oceani, in progressiva espansione. Tutti i fondali marini già esistenti stanno invece per sparire, immersi e rifusi nelle profondità mantelliche oppure corrugati e innalzati in montagne che cresceranno anche per migliaia di metri in altezza.
Là in mezzo, fra Laurasia e Gondwana, un lembo litosferico si sta abbassando. Lo bagnano acque sottili, con il loro carico minerale e biotico. Dapprima in parte evaporano ma poi la batimetria cresce e sulla neonata piattaforma marina si depongono estese fanghiglie calcaree.
Per un certo tempo l'ossigeno è poco e la sostanza organica soffoca, marcisce, sepolta sotto nuovi lenzuoli melmosi, ora calcarei ora silicei. Pigmentazioni carboniose impregnano tutto quel sedimento che, pressato dal carico sovrastante, via via si indurisce preservando un aspetto irrimediabilmente cupo.
Passano circa 100 milioni di anni e le zolle cambiano direzione, iniziano a convergere. Ma l'inabissamento prosegue, anzi si accentua, velocizzato da maestose forze tettoniche che provocano la subduzione, l’obduzione e il definitivo riempimento del protoceano con centinaia di metri di sabbie torbiditiche, note successivamente come “Macigno”.

20 milioni di anni fa, Miocene.
L'esperienza marina è quasi giunta al termine nel grande bacino ormai colmato e la crosta, così ispessita, si è risollevata fino a riemergere, per poi risalire ancora negli anni a venire.

Fig. 2 – Muretto a secco.
Vezzano Ligure (SP).


Quaternario.
I continenti che circondano il Mediterraneo hanno preso la forma odierna. Le intemperie e le glaciazioni modellano i rilievi e controllano i livelli marini.
Una costa del continente europeo che affaccia a meridione scopre una parte di quel calcare micritico nerastro, ora nuovamente bagnato dal mare, un giorno detto Ligure.
L’aspetto plumbeo di quel calcare liassico è piuttosto originale nella variopinta successione degli altri strati rocciosi. Non rivela tracce di vita precedente, neppure microscopiche. Pare petrolio solidificato. Lo attraversano strutture nodulari e stilolitiche e venature di calcare in parte dolomitizzato, bianco e giallastro, quasi dorato, per la presenza di solfuri e idrossidi di ferro, riempimenti delle fratturazioni provocate dalle spinte deformative. Spinte soprattutto compressive, che hanno piegato e fagliato tutta la successione rocciosa, dando origine a un golfo, dove si posizionerà il porto di La Spezia, fiancheggiato da due creste protese verso il mare.
Il calcare scuro affiora lungo la cresta di ponente che oggi termina con Portovenere e le isole Palmaria e Tino, mentre la cresta di levante mette a nudo il basamento ercinico, con le sovrastanti metamorfiti triassiche.
Col tempo il territorio si popola e l'avanzamento tecnologico arriva a permettere l'estrazione della roccia. Dei suoi primi impieghi rimangono pochissime tracce, per gran parte obliterate dai successori.


Fig. 3 – Panoramica dell’apice del promontorio di Portovenere (SP) visto dall’isola Palmaria.
(0: Golfo di La Spezia, da Google Earth; 1: tipica schiera di caseggiati lungo il porto di Via Calata Doria; 2: scorcio verso la chiesa di San Pietro; 3: antiche cave a mare, dove una targa ricorda il poeta Byron, il quale - si narra – da qui nuotò fino a Lerici per raggiungere l’amico Shelley; 4: sala ipostila del Forte-Castello Doria; 5: unità della successione toscana affioranti sulla costa verso le Cinque Terre)
II secolo avanti Cristo.
Una fiorente cittadina portuale domina lo scenario tirrenico. Greci, Etruschi e Liguri Apuani la chiamavano Selene, prima dell'arrivo dei Romani, che la ribattezzano in Lunae, poi Luni, da cui trarrà il nome la regione Lunigiana. Snodo commerciale, vanta tra le sue specializzazioni anche il trasporto di roccia, per vie terrestri e marittime (naves lapidariae), sviluppato per la presenza in zona di giacimenti di marmo bianco già pregiatissimo, futuro “Marmo di Carrara”, copioso, compatto, ideale da scavare e forgiare.
Candide ferite verticali cominciano a disegnarsi nell'entroterra apuano, mentre sotto abili mani sorgono statue perfette e robusti edifici, per abitare, amministrare e divertirsi.
Tutte le rocce lapidee conoscono un deciso sfruttamento, il primo destinato a lasciare traccia di sé nei secoli a venire. In poco tempo il loro impiego trasforma intere città, specialmente Roma (secondo lo storico Svetonio, Augusto, già in età avanzata, sosteneva di aver ricevuto una città di mattoni e di averla lasciata di marmo).

Fig. 4 – Pavimentazioni.
Chiesa di Santa Maria delle Vigne a Genova;
palazzo pubblico in Via Garibaldi a Parma;
basilica di San Paolo Fuori Le Mura a Roma.

In mezzo a tante rocce chiare, le scure rocce liguri esercitano tutto il loro fascino misterioso, e quel vecchio calcare nero ha un asso in più nella manica: è lucidabile e, opportunamente tagliato, mette in mostra l’armonioso reticolo delle venature bianco-dorate.
Esposto tende a schiarirsi, ma inumidito e levigato acquista un’oscurità brillante. Accostato ad altre rocce ne esalta i colori, da solo marca spazi eleganti, dove l’occhio finisce prima o poi per cadere.
I suoi impieghi si moltiplicano, per uso costruttivo e soprattutto ornamentale, diffondendosi per chilometri di distanza.

Fig. 5 – Frammenti di roccia, asciutti e bagnati.

Fig. 6 – Arredi.
Chiesa di Nostra Signora delle Grazie a Le Grazie (SP),
anticamente gestita dai monaci Olivetani, proprietari delle cave locali.

Fig. 7 – Arredi.
Dimora storica nel quartiere Albaro di Genova;
pasticceria a Piacenza;
cimitero di Portovenere.

 
Fig. 8 – Arredi.
Chiesa di San Francesco a Lerici (SP).
Portoro, questo il suo nome assegnato, si pensa, durante la dominazione francese del territorio, forse da “porte de l'or”.
Tanta la sua notorietà che lo stesso nome si usa e abusa per altre rocce somiglianti, cavate altrove nel mondo, pur gradualmente soppiantato dall'anglosassone black and gold.
Altrettanto abusivamente lo chiamano marmo, per le sue caratteristiche estetiche e di durezza, ma gli scienziati moderni rifiuteranno il termine escludendo trasformazioni metamorfiche, nemmeno di basso grado.

Fig. 9 – Infelici ma significativi tentativi di imitazione.
Abbazia di S. Andrea apostolo a Borzone di Borzonasca (GE);
chiesa di San Pietro a Montemarcello (SP).
Tra le prime notizie documentate sullo sfruttamento del Portoro, gli storici ricordano gli atti intervenuti tra il XVI e il XVII secolo costituiti da concessioni governative a ingegneri e scultori o imprenditori e da accordi tra questi e i proprietari dei luoghi di scavo, per l'occupazione dei terreni e per i pagamenti del materiale cavato.
Per la sua estrazione, iniziata con cunei di legno e poi di ferro, a fine ‘700 si utilizza l’esplosivo, poi a fine ‘800 la sega con sabbia silicea e infine dalla seconda metà del ‘900 la tagliatrice a filo diamantato.
La coltivazione si svolge a cielo aperto o in sotterraneo, a mezza costa o anche sotto il livello marino.
 
Fig. 10 – Attività estrattive dismesse sull’isola Palmaria (SP),
caletta di Punta Pittonetto e cava del Pozzale.
Fig. 11 – Attività estrattive dismesse sull’isola Palmaria (SP),
affioramento e blocco grezzo di estrazione presso il molo Terrizzo.
A metà ‘800 vengono censite circa trenta cave attive in zona, ma già nella prima parte del ‘900 si registra una drastica riduzione, dovuta a varie cause, tra cui il graduale esaurimento delle varietà più pregiate e la conseguente riduzione dei margini di guadagno, oltre al degrado ambientale prodotto dalle attività di scavo, non più trascurabile in una società fattasi più sensibile e più propensa alla preservazione e fruizione dei paesaggi naturali. Il cambio culturale viene certificato dall'iscrizione di queste zone nel patrimonio mondiale dell’umanità (UNESCO).

Fig. 12 – Uso attuale del Portoro sull’isola Palmaria (SP).
L’area di affioramento del Portoro e, più in generale, l'area della Spezia, con tutta la successione stratigrafica in esposizione, piegata e in parte rovesciata in retrovergenza (direzione occidentale, antiappenninica), costituisce una palestra ideale di studio per la comprensione geologica dell'Italia centro-settentrionale, sin dagli inizi dell’800. Ne dà conto, in sintesi, la sezione “Cenni storici” delle Note illustrative del Foglio 248 “La Spezia” della Carta Geologica d'Italia alla scala 1:50.000.

Fig. 13 – Sezione-tipo della piega della Spezia, dal Foglio 248 “La Spezia” della Carta Geologica d'Italia in scala 1:50.000 (LSP: Formazione di La Spezia, di età Norico – Retico sup.; PRT: Portoro, datato Retico sup. – Hettangiano).

La cartografia trae origine dalla “Carta geologica dei dintorni del Golfo della Spezia e Val di Magra inferiore” redatta nel 1863 sotto la responsabilità dello spezzino Giovanni Capellini (1833-1922), docente di geologia all'Università di Bologna, cofondatore della Società Geologica Italiana e poi senatore del Regno d'Italia.
La documentazione raccolta presso l'Archivio storico del Senato descrive l'attaccamento di Capellini a queste zone, trasmesso al suo allievo Domenico Zaccagna (1851-1940), carrarese, in forze al R. Ufficio Geologico.

Fig. 14 – Giovanni Capellini (dal sito del Servizio Geologico d'Italia - ISPRA)
e Domenico Zaccagna (dal sito della Società Geologica Italiana, sezione Presidenti).
Proprio a Capellini si deve la prima descrizione formale delle unità geologiche di appartenenza del Portoro (1862) e a lui oggi è dedicata la via centrale di Portovenere. Laggiù infatti Capellini amava ritirarsi, in una dimora con ampie vetrate affacciate sul golfo, immersa nella vegetazione ma ben conosciuta dai locali e visibile dal mare.

Fig. 15 – Antica porta d’ingresso alla via centrale di Portovenere (SP) intitolata a Capellini.
Dall’aspetto sereno, baffi spioventi, chioma bianca ed ancora fluente, viso asciutto”. Così un cronista dell’epoca lo descrive, un anno prima della sua scomparsa, all'alba del periodo fascista, nel corso di una commemorazione di un marittimo del luogo che aiutò Garibaldi.
Durante l'intervista Capellini manifesta la sua fede nella patria e rievoca i primi studi nella nativa Spezia, dove ebbe a incontrare la famiglia reale dei Savoia, mostrando le prime avveniristiche attrezzature in dotazione al gabinetto di fisica e storia naturale dell’ateneo (“una piccola macchina elettromagnetica, un telegrafo e … qualche preparazione microscopica, giovandosi di un microscopio … prestato dal prof. Marsili”), dove più tardi una targa testimonierà l’evento. Da quel giorno - si compiace Capellini – Umberto, allora principe, “fu il mio protettore e nessuno più di lui s'interessò per tutto quanto mi riguardava compiacendosi anche di dirsi mio più antico amico”.

Fig. 16 – Estratto della Carta geologica dei dintorni del Golfo della Spezia e Val di Magra inferiore, in scala 1:50.000 (1863), di Giovanni Capellini, dedicata a S.A.R. Umberto di Savoia, Principe ereditario del Regno d'Italia (disponibile al download su opac.isprambiente.it)
Attività di cava filmate nel 1932 dall’Istituto Luce

Per saperne di più:

  • Capellini G. (1862) - Studi stratigrafici e paleontologici sull’Infralias nelle montagne del Golfo della Spezia. Memorie dell'Accademia delle Scienze dell'Istituto di Bologna, 75pp con 2 tavole, Bologna.
  • Zaccagna D. (1935) - La geologia del Golfo della Spezia. Memorie dell'Accademia Lunigianese delle Scienze, 16: 63-90, La Spezia.
  • Servizio Geologico d'Italia, Carta Geologica d'Italia alla scala 1:50.000, con Note Illustrative, Foglio 248 La Spezia (2005).
  • ISPRA – Catalogo delle formazioni, Carta Geologica d'Italia alla scala 1:50.000, Scheda “Portoro”, a cura di Paola Falorni.
  • Fiora L. e Alciati L. (2007) – Rosso Levanto e Portoro, “marmi” colorati dalle proprietà estetiche uniche. In Cave storiche e risorse lapidee, a cura di L. Marino, Ed. Alinea.
  • Fratini F., Pecchioni E., Cantisani E. et al. (2015) - Portoro, the black and gold Italian “marble”. Rendiconti Fis. Acc. Lincei, Volume 26, Issue 4, pp 415–423.
  • Spesso M. e Brancucci G. (2016) - Le pietre liguri nell'architettura di Genova durante il regime fascista. Ed. Angeli.
  • Piano territoriale regionale delle attività di cava della Regione Liguria.
  • https://www.regione.liguria.it/homepage/territorio/paesaggio-tutela-e-valorizzazione/valorizzazione-del-paesaggio/uso-materiali-lapidei-tradizionali/catalogo-materiali-lapidei.html 
  • http://www.cittadellaspezia.com/Materia-facoltativa/Il-portoro-174309.aspx 
  • http://www.luni.beniculturali.it/index.php?it/283/inquadramento-storico-e-archeologico 
  • http://notes9.senato.it/web/senregno.nsf/C_l2?OpenPage (scheda di Giovanni Capellini)
  • http://www.archiviostorico.unibo.it (voce “Ritratti dei Docenti”)


Aldo Giacomo Segre

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Le pagine di Geoitaliani sono onorate di ospitare un breve ricordo del professor Aldo Giacomo Segre, scritto dalla collega Maria Piro. 

Nel suo secolo di esistenza egli ha potuto spaziare nei suoi interessi scientifici, partecipando da protagonista a scoperte e ricerche che costituiscono pietre miliari nel percorso delle conoscenze sulla geologia dell'Italia centrale, sul Quaternario e sulla paleoantropologia, che troverete menzionate nell'articolo che segue. Molte esperienze belle, che speriamo possano avere almeno in parte compensato quella negativa che Segre subì in gioventù, nella prima parte della sua lunga vita. Come molti italiani di religione ebraica, egli sperimentò infatti l'atroce assurdità delle leggi razziali del 1938. Sappiamo che di questa vicenda il professore non gradiva parlare, lasciandosela alle spalle, e a questo volere ci adeguiamo. Con la licenza però di dire che, ad ottant'anni di distanza da quella sciagurata vicenda, c'è ancora molto bisogno in Italia di esempi positivi.
Uno di questi è la storia dell'illustre Geoitaliano Aldo Giacomo Segre.

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di Maria Piro

Il 12 novembre 2018 è scomparso Aldo Giacomo Segre, geografo, geologo e paleontologo di fama internazionale. Aveva compiuto 100 anni nel gennaio 2018. Questa breve nota, assolutamente non esaustiva, ha l’intento di descrivere sinteticamente la sua attività scientifica, portata avanti costantemente per oltre 70 anni.




A metà degli anni trenta il giovanissimo Segre comincia a dedicarsi alla speleologia, iniziando la sua attività presso il Circolo Speleologico Romano; contemporaneamente partecipa agli scavi di Carlo Alberto Blanc nel giacimento di Saccopastore.
Il clima creatosi con la promulgazione delle leggi “per la difesa della razza” determina in sostanza la fine delle attività del Circolo ed ha ripercussioni anche sulla sua famiglia.
Subito dopo la parentesi della guerra è il promotore della rifondazione del Circolo Speleologico Romano,  la prima storica associazione speleologica del Lazio, fondata nel 1904. Recupera la documentazione rimasta nella sede del Circolo ed in precarie condizioni di conservazione, ed in particolare si dedica alla riorganizzazione del catasto delle grotte.



Prosegue gli studi conseguendo la laurea in Geologia del quaternario e inizia la sua attività di ricercatore e studioso. La sua tesi di laurea riguarda appunto lo studio del fenomeno carsico, e viene pubblicata dall'Istituto di Geografia dell’Università di Roma con il contributo del CNR nel 1948: "I fenomeni carsici e la speleologia nel Lazio", opera fondamentale per la conoscenza del territorio e per gli speleologi, nella quale, oltre a descrivere tutte le grotte conosciute all'epoca, descrive il fenomeno carsico della regione in tutti i suoi aspetti e sintetizza le teorie speleogenetiche dell’epoca, studiando forse per primo nel Lazio il meccanismo degli sprofondamenti (oggi noti come sinkholes) da lui chiamati “doline di sprofondamento suballuvionali”. Scrive inoltre numerosi articoli su speleologia e carsismo, studiando in particolare le regioni del Lazio e Abruzzo. Con i suoi studi ha rappresentato soprattutto la speleologia scientifica. Alla fine degli anni '50 termina questo filone di attività, pur restando in contatto con l'ambiente speleologico.






Nel frattempo inizia la sua lunga e intensa attività di ricercatore, nel corso della quale spazia in numerosi campi di studio e ricerca. Per quanto si evince dai circa 150 articoli e volumi da lui pubblicati, negli anni ‘50 e ‘60 si dedica soprattutto a ricerche di geologia marina, studiando le antiche linee di riva sommerse e la geomorfologia delle piattaforme continentali nel Mediterraneo e realizzando carte batimetriche scoprendo per primo l’esistenza del Vulcano Marsili; collabora anche con Jacques Costeau per lo studio dei fondali mediterranei con la nave Bannock, con l’Istituto Idrografico della Marina di Genova; per molti anni ha la carica di presidente della Commissione Internazionale per lo studio del Mediterraneo con sede al Principato di Monaco.
In qualità di geologo e rilevatore nel Servizio Geologico d’Italia partecipa, negli anni '50 e '60, alle campagne di rilevamento per la redazione della Carta Geologica d’Italia, collaborando all'elaborazione di vari fogli geologici dell’Italia Centrale e della Campania, e al rilevamento geologico delle isole Pontine e di alcune aree della Sardegna; compie studi anche nella regione del Vulture e nella bassa valle del Sacco Liri.




Studia inoltre i giacimenti quaternari e la paleontologia umana, partecipando anche a campagne di scavi e pubblicando vari studi in collaborazione con archeologi.
Successivamente per diversi anni insegna presso l'Università di Messina dirigendo l'Istituto di Geologia, Paleontologia e Geografia Fisica dell'allora Facoltà di Scienze Matematiche, Fisiche e Naturali.
E’ il Capo Scientifico della prima spedizione scientifica italiana in Antartide svoltasi nel 1968 - 1969, curata dal Consiglio Nazionale delle Ricerche insieme al Club Alpino Italiano, con il supporto logistico della Nuova Zelanda, e della seconda spedizione organizzata dal CNR nel 1973 - 1974.
Dagli anni ’80, terminata l’attività accademica, si dedica quasi esclusivamente, insieme alla moglie Eugenia Naldini, allo studio dei giacimenti preistorici; inoltre collabora con l’Istituto Italiano di Paleontologia Umana nella sede storica di Roma in Piazza Mincio. A lui e ai suoi collaboratori si deve, fra l’altro, la scoperta dell’Uomo di Ceprano nel 1994.
Ci sarebbe da raccontare ancora moltissimo, oltre a quanto è stato riassunto in questa breve nota.
Si ringraziano per le notizie e la revisione del testo la prof. Eugenia Naldini e la prof. Maria Fierli.

Bibliografia
Segre A.G. (1948) - I fenomeni carsici e la speleologia nel Lazio. Pubblicazioni dell'Istituto di Geografia dell'Università di Roma, 239 pp.

Il Ponte Sfondato sul torrente Farfa (Sabina, Lazio)

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di Marco Pantaloni & Fabiana Console

Riprendiamo un lavoro anticipato qualche anno fa; nel 2013 pubblicammo sul blog Geoitaliani (a questo link) la sintesi di un lavoro di Carmelo Maxia: "Un singolare fenomeno d'erosione nella Sabina occidentale: il “Ponte Sfondato” sul torrente Farfa", che l'illustre geologo pubblicò su L'Universo nel 1948.
La lettura di questo interessante lavoro ci ha dato l'impulso di proseguire le ricerche compiute da Maxia constatando, purtroppo, che le sue intuizioni non furono smentite dagli eventi.
Le nostre ricerche sono confluite in un lavoro pubblicato sui Rendiconti online della Società Geologica Italiana (link).

Ponte Sfondato e il toponimo di una frazione del comune di Montopoli di Sabina, in provincia di Rieti. Questa denominazione deriva dalla presenza nell’area, fino al 1961, di un arco naturale che sovrastava il torrente Farfa, originato da un particolare tipo di fenomeno erosivo verificatosi probabilmente nel XV sec.
L’arco si è formato a causa dell’erosione, da parte del torrente Farfa, di un dorso roccioso allungato in direzione N-S originato dalla sovraescavazione di un meandro incassato. La litologia di questo corpo, caratterizzato dalla presenza di ghiaie calcaree, silicee e arenacee debolmente cementate e con livelli arenacei, ha facilitato l’attività erosiva del torrente che, specialmente durante le fasi di piena, e stato in grado di “sfondare” il promontorio roccioso causando la formazione di un arco naturale, creando quindi una via di passaggio sottostante. Questo processo comporto l’abbandono del meandro precedentemente percorso dal torrente. L’arco naturale che si origina presenta un elevato grado di instabilità; col tempo, infatti, questo particolare morfotipo tende ad assottigliarsi e a crollare.


Stralcio della carta "Sabina" di Mauro Giubilio e Giovanni Maggi (1617)
con l'indicazione "Mote sfondato".


In questo lavoro, attraverso una approfondita ricerca di materiale cartografico, bibliografico e iconografico, vengono documentate molte delle fasi evolutive del Ponte Sfondato, dalle sue prime rappresentazioni su carte storiche fino alle immagini fotografiche del ‘900, prima del suo crollo definitivo avvenuto nel 1961.
Per secoli, infatti, il Ponte Sfondato ha rappresentato il valico naturale del torrente Farfa nella sua media valle, sul quale passava uno dei tanti tracciati, o derivazioni, della Salaria.


L’arco naturale venne utilizzato fino alla fine degli anni ’50 del secolo scorso quando fu sostituito da un moderno ponte in cemento armato; immediatamente dopo l’abbandono il Ponte Sfondato collassò per cause non ancora chiarite.
Questo lavoro ha l’obiettivo di ricostruire l’evoluzione dell’arco naturale nel tempo, le modalità di rappresentazione nel corso dei secoli e la ricostruzione delle cause della sua origine e gli eventi che ne hanno causato il crollo. La distruzione dell’arco, di origine naturale o antropica, ha segnato il destino del Ponte Sfondato; questo morfotipo, per le sue caratteristiche peculiari, rientrerebbe a pieno titolo tra i geositi a valenza globale e sarebbe oggi soggetto ad azioni di tutela e conservazione.

Il Ponte Sfondato visto da ovest, riprodotto negli “Itinerari automobilistici d’Italia” (1924)
del geologo Giotto Dainelli e dello storico dell’arte Umberto Gnoli.

Il Ponte Sfondato rappresenta un tipico esempio di luogo della memoria geologico-storica, ossia di un sito che ha rappresentato, in passato, un importante luogo di interesse geologico-paesaggistico ma che oggi, a causa della sua evoluzione, non e più visibile. In virtù delle sue caratteristiche il Ponte Sfondato resta quindi nella memoria storica e nell'immaginario collettivo attraverso scritti, cartografia, pubblicazioni scientifiche, dipinti, e, in questo caso, anche attraverso citazioni in romanzi d’appendice, fotografie e pellicole cinematografiche.


Una scena del film “Il ritorno di Don Camillo”, di Julien Duvivier, del 1953.
Sullo sfondo una bellissima immagine del Ponte Sfondato, pochi anni prima del suo crollo;
da notare il letto del torrente ingombro di blocchi crollati dalla volta e dai piedritti.

Per saperne di più:

Pantaloni M., Console F. (2019) - Il Ponte sfondato sul torrente Farfa (Sabina, Lazio). Rendiconti online della Società Geologica Italiana. 47/2019, 162-177.
DOI: https://doi.org/10.3301/ROL.2019.28

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1969-2019 - Bruno Accordi e la Scuola Geologica Romana: l'idrogeologia dell'Alto Bacino del Liri

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Dipartimento di Scienze della Terra
Sapienza, Università di Roma
Piazzale Aldo Moro, 5 - Roma
Roma, Venerdì 31 maggio 2019 - Aula 1


Mezzo secolo, fa sul volume VIII (1969) della rivista "Geologica Romana", fondata e diretta da Bruno Accordi, fu pubblicata una monumentale monografia dal titolo IDROGEOLOGIA DELL'ALTO BACINO DEL LIRI (APPENNINO CENTRALE), RICERCHE GEOLOGICHE, CLIMATICHE, IDROLOGICHE, VEGETAZIONALI, GEOMORFICHE E SISTEMATORIE. Ideatore e coordinatore dello studio fu lo stesso Accordi, all'epoca Direttore dell'Istituto di Geologia e Paleontologia dell'Università degli Studi di Roma "La Sapienza", coautori un gruppo di giovani ricercatori di diversa estrazione (geologi, agronomi, botanici, ingegneri), molti dei quali suoi allievi: Antonello Angelucci, Giancarlo Avena, Fabio Bernardini, Carlo Felice Boni, Franco Bruno, Marco Cercato, Bruno Coppola, Giovanni Fiore, Renato Funiciello, Giovanni Giglio, Giovanni Battista La Monica, Elvidio Lupia Palmieri, Bruno Mattioli, Maurizio Parotto. Alcuni di loro stavano iniziando la carriera accademica, specializzandosi nel campo geologico, in quello botanico-vegetazionale e in quello dell' ingegneria civile; altri invece si sarebbero avviati in breve ad affrontare quegli stessi temi come funzionari di Enti Pubblici o come liberi professionisti.
Quella pubblicazione, che rappresenta ancora adesso un "testo sacro" della geologia pratica moderna, fu scritta con un intento quasi provocatorio nei confronti dell'establishment dell'epoca, che gestiva le questioni ambientali secondo regole che non contemplavano le Scienze della Terra, ancora in una "condizione esistenziale" di minorità. Da un punto di vista storico la monografia rappresenta perciò sicuramente a livello italiano- ma forse anche internazionale- un manifesto rivoluzionario di 'geologia futurista', scritto peraltro nei tempi della 'rivoluzione culturale', il quale precorse di un trentennio (la "legge Sarno"è del 1998) l'approccio sistematico a scala di bacino degli studi per il governo del territorio e per la prevenzione delle catastrofi idrogeologiche.
Con quell'esperienza, una nuova fase di "rinascimento geologico" prendeva forma nella Capitale, cento anni dopo la nascita della Scuola Geologica Romana per opera del capostipite Giuseppe Ponzi nella seconda metà del XIX secolo. Dalla leva di giovani allievi di Accordi sarebbe infatti enucleata presso "La Sapienza", nei decenni a seguire, una nuova e moderna scuola, differenziatasi progressivamente in diversi settori specialistici di ricerca di base e applicata al territorio- dalla geologia stratigrafica alla sedimentologia, dalla geomorfologia all'idrogeologia e alla geologia applicata, dalla geologia strutturale alla botanica e all'ecologia vegetale- il cui contributo sarebbe stato fondamentale per guidare la comunità geologica tecnico-scientifico italiana verso il nuovo millennio.
A 50 anni dalla pubblicazione dello studio, il convegno si propone pertanto di celebrare una tappa fondamentale del progresso delle Geoscienze italiane, ma anche di ribadire l'importanza della consapevolezza storica del sapere scientifico. Il contributo che la cultura geologica può fornire agli Enti preposti al governo del territorio è fondamentale; il futuro delle tecnoscienze non può perciò prescindere da una corale e paritetica collaborazione tra specialisti di diversa estrazione disciplinare, uniti  dalla consapevolezza che il loro sapere è un bene pubblico,  proprio come anticipato 50 anni fa nello studio della Valle del Liri.  Ancora una volta, capovolgendo il principio dell'attualismo, il passato viene in soccorso come chiave del presente e del futuro.

9:00 - 9:30 Registrazione dei partecipanti
9:30- 10:15 Cinquanta anni dal primo approccio multidisciplinare per la conoscenza e la tutela del territorio
Paolo Ballirano – Direttore DST Sapienza
Francesco Peduto – Presidente Consiglio Nazionale Geologi
Roberto Troncarelli – Presidente Ordine Geologi Lazio
Nicola Tullo – Presidente Ordine Geologi Abruzzo
Patrizio Zucca – Presidente Ordine Agronomi e Forestali Provincia di Roma
Giampiero Orsini - Città Metropolitana di Roma Capitale
Marco Pantaloni – ISPRA Servizio Geologico d'Italia; Sezione Storia Geoscienze  SGI
Giovanni Accordi – CNR- IGAG
10:15-13:15 L'impresa scientifica: contesto storico e testimonianze (coordinano Simone Fabbi e Giulia Innamorati)
Tra il Liri e la Luna, storia di un'impresa Alessio Argentieri, Giovanni De Caterini
Testimonianze degli Autori 
Maurizio Parotto, Elvidio Lupia Palmieri, Bruno Coppola, Franco Bruno, Giovanni Battista La Monica, Giancarlo Avena, Giovanni Fiore

Tributo a Bruno Accordi 
Umberto Nicosia, Marco Romano
La geologia della Val Roveto, oltre un secolo di ricerche
Maurizio Parotto, Giampaolo Cavinato, Maurizio Sirna
Nascita dell'idrogeologia quantitativa: dalla conoscenza alla gestione della risorsa
Giuseppe Capelli
Da Boni a Celico:  l'idrogeologia della piana di Cassino trent'anni dopo 
Michele Saroli, Michele Lancia, Marco Petitta

13:15-14:30 Pausa

14:30-15:30 Poliformismo culturale e nuove prospettive (coordina Giuseppina Bianchini)

La cultura come risorsa della montagna 
Antonio Ciaschi
L'avventura degli artisti scandinavi a Civita d'Antino: un 'locus amoenus' abbandonato in seguito ad un terremoto
Guido Galetto
Il Progetto FRANARISK nell'area metropolitana di Roma Capitale 
Gian Marco Marmoni
La conoscenza dei suoli del Lazio per la gestione del territorio 
Massimo Paolanti

15:30-17:00 Tavola Rotonda "Da un singolo bacino ad una nuova visione multidisciplinare per il governo del territorio: le scienze applicate nella cultura e nella società italiana tra il XX e il XXI secolo"
(coordina Giovanni De Caterini)


Marco Amanti- ISPRA
Domenico Calcaterra - Università di Napoli "Federico II"
Vera Corbelli – Autorità di Bacino Distrettuale dell'Appennino Meridionale
Erasmo D'Angelis – Autorità di Bacino Distrettuale dell'Appennino Centrale
Quintilio Napoleoni –Sapienza Università di Roma
Gianluca Piovesan – Università della Tuscia
Sergio Rusi – Università di Chieti- Pescara "Gabriele D'Annunzio" , Segretario IAH Italia
Giuseppe Sappa – Sapienza Università di Roma
Gabriele Scarascia Mugnozza – Sapienza Università di Roma
Marco Tallini – Università dell'Aquila

17:00-17:30 Dibattito e conclusioni

E' stato richiesto il riconoscimento di crediti  per Aggiornamento Professionale Continuo

Iscrizione obbligatoria online su www.geologilazio.it

COMITATO SCIENTIFICO E ORGANIZZATORE: Giovanni Accordi (CNR), Alessio Argentieri (Città Metropolitana di Roma Capitale; SGI Sezione Storia Geoscienze), Giuseppina Bianchini (Ordine dei Geologi del Lazio), Giacomo Catalano (Regione Lazio), Giovanni De Caterini (geologo libero professionista; SGI Sezione Storia Geoscienze), Graziella De Gasperi (Ordine dei Geologi del Lazio), Catia Di Nisio (Ordine Geologi Regione Abruzzo), Simone Fabbi (Sapienza- Università di Roma; SGI Sezione Storia Geoscienze), Giulia Innamorati (Sapienza- Università di Roma), Francesco La Vigna (Roma Capitale; Acque Sotterranee-Italian Journal of Groundwater), Roberto Mazza (Università Roma TRE), Marco Pantaloni (ISPRA; SGI Sezione Storia Geoscienze), Marco Petitta (Sapienza- Università di Roma), Fabio Massimo Petti (Società Geologica Italiana), Giovanni Rotella (Città Metropolitana di Roma Capitale), Manuela Ruisi (Autorità di Bacino Distrettuale dell'Appennino Centrale), Gabriele Scarascia Mugnozza (Sapienza- Università di Roma), Alessandro Urbani (Regione Abruzzo).

La Luna Capitolina

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di Alessio Argentieri

Mezzo secolo fa la missione spaziale NASA “Apollo 11” portava a compimento una sfida straordinaria, lanciata molti anni prima dal Presidente degli Stati Uniti d’America John Fitzgerald Kennedy. Il 21 Luglio del 1969 due astronauti americani, il Comandante Neil Armstrong e il pilota del LEM Buzz Aldrin, giunsero a camminare sulla Luna, per ritornare poi sani e salvi sul Pianeta Terra assieme al terzo membro dell’equipaggio Michael Collins. Il Modulo di Comando, pilotato da Collins, rientrò infatti dalla missione lunare ammarando nell'Oceano Pacifico tre giorni dopo, il 24 luglio.
La corsa vittoriosa al Satellite terrestre, il cui cinquantenario ricorrerà tra pochi giorni, è oggetto di celebrazioni a livello globale. La storia è nota, anche nei risvolti negazionisti della balorda teoria del “complotto lunare” (Moon Hoax) che, nonostante prove scientifiche la confutino inequivocabilmente, conta ancora qualche irredento seguace (come purtroppo molte altre disinformazioni che trovano credito nella società del XXI secolo).
Nelle case degli italiani, come è arcinoto, la memorabile nottata fu vissuta con la telecronaca diretta di Tito Stagno dagli studi RAI e di Ruggero Orlando dagli Stati Uniti, impreziosita dal celebre battibecco tra i due grandissimi giornalisti. GEOITALIANI vuole partecipare alla sua maniera alle celebrazioni di questa importante ricorrenza della storia contemporanea. Rievochiamo perciò un paio di aspetti meno noti della vicenda, coincidenze che legano Roma alla conquista della Luna.


Un primo collegamento è dato dal fatto che dei tre astronauti, uno era nato nella Città Eterna il 31 ottobre del 1930: Michael Collins, vero ‘americano a Roma’, vide la luce in una bella casa di Via Tevere n.16, nel quartiere Salario, dove la famiglia risiedeva perché il padre di Michael era addetto militare presso l’ambasciata USA. Invitiamo i lettori ad un piccolo “pellegrinaggio spaziale”, a pochi passi da Via Po, per vedere la lapide commemorativa sulla parete dell’edificio, raffigurata nell'immagine a corredo dell’articolo.




Un secondo anello di connessione sono i campioni di rocce lunari. Nella passeggiata sulle desolate lande del Mare della Tranquillità furono prelevati oltre 21 chilogrammi di reperti. In esito alla missione Apollo 11, ad un gruppo di giovani ricercatori dell’Università di Roma giunse la notizia che nelle polveri lunari erano presenti delle minuscole sferule vetrose. Erano geologi che, alla fine degli anni ’60, erano stati avviati dai loro maestri allo studio multidisciplinare di microgranuli magnetici nei sedimenti terrestri. Forti della propria esperienza nel campo, gli studiosi poco più che trentenni, guidati dall'intraprendente Renato Funiciello, ebbero il coraggio di proporre alla NASA di occuparsi delle analisi sulle sferule lunari.
Audaces fortuna iuvat: la NASA accolse la proposta di collaborazione, e giunsero a Roma pochi preziosi grammi dei campioni prelevati nel novembre del 1969 dalla missione Apollo 12, comandata da Charles Conrad (1930-1999), il terzo uomo a mettere piede sulla Luna. Oltre a Funiciello, designato Principal Investigator, facevano parte del gruppo come Coinvestigators Adriano Taddeucci, Marcello Fulchignoni e Raffaello Trigila (a cui si aggiunse poi il leggermente più giovane Giuseppe Cavarretta). Altri campioni delle successive missioni NASA Apollo 14 e 15 furono spedite ai laboratori romani, per una lunga stagione di studi sviluppatasi tra il 1971 e il 1976, che costituisce un importante momento nella storia delle geoscienze.


Sia perciò perdonato alla nostra redazione, che fa prevalentemente base in riva al Tevere, un poco di sciovinismo nel rievocare un evento di portata globale, o meglio cosmica, esaltandone gli aspetti locali. Dei piccoli passi per pochi uomini, un gigantesco balzo per la romanità.

Per saperne di più:
  • Adriano Taddeucci “Il suo entusiasmo nello sport e nella scienza: lo trasmetteva a chi era con lui”, in “Renato Funiciello. Un geologo in campo” (a cura di Fabio e Francesca Funiciello), Anicia Editore.
  • www.attualita.it

Notte Europea dei Ricercatori 2019

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a cura della Sezione di Storia delle Geoscienze - Società Geologica Italiana




Venerdì 27 Settembre2019si terrà a Roma la NOTTE EUROPEA DEI RICERCATORI 2019, promossa dalla Commissione Europea ed organizzata da Frascati Scienza insieme a circa 60 partners. L’iniziativa è stata avviata per la prima volta tredici anni fa, con l’intento di portare la scienza e i ricercatori tra i cittadini, i giovani e gli studenti. Il simbolo di questa edizione, intitolata BEES (BE a citizEn Scientist),è l’ape, animale scelto quale paradigma del rapporto virtuoso tra scienza, ambiente e cittadinanza attiva.
Nella serata di venerdi 27 settembre, dalle 19 a mezzanotte, la sede dell’Università degli Studi Roma TRE (largo S. Leonardo Murialdo 1) ospiterà circa 40 attività diverse, articolate in cinque sezioni:
Attività interattive (Giochi matematici, antibiotici, particelle subnucleari, crittografia, vulcani, terremoti, aerei di carta, DNA, protozoi, macchine per disegnare, chiosco dei “tarocchi del fisico”);
Seminari (oltre alla scoperta dell’acqua su Marte, si parlerà di cambiamenti climatici, buchi neri, macchine per il volo e molto altro);
Mostre e spettacoli (il tradizionale planetario e le osservazioni al telescopio, ma anche raggi cosmici, matematica visuale, carte geologiche, pianeti, la sostenibilità con il cortometraggio “Di chi è la Terra”, e le opere degli artisti di RBN Arte);
Pillole di scienza (sezione di seminari-lampo, dedicati ai temi scientifici più svariati e rivolti ad pubblico no amante dei lunghi monologhi)
Kids’ corner– (con le immancabili attività dedicate ai bambini)
L’accesso è gratuito. Per informazioni e prenotazioni:

GEOITALIANI, accogliendo il cortese invito dell’organizzazione, ci sarà.
La Sezione di Storia delle Geoscienze della Società Geologica Italiana, in collaborazione con Città Metropolitana di Roma Capitale, ISPRA e Dipartimento di Scienze- Università degli Studi Roma TRE, presenterà una conferenza dal titolo “SOTTO I SETTE COLLI” , che ripercorre lo sviluppo della tradizione delle scienze della Terra a Roma dall’inizio del XIX secolo all’epoca moderna, seguendo il filo conduttore del progresso della cartografia geologica dell’area romana (inizio alle ore 22:30 presso l’Aula M2 di Largo San Leonardo Murialdo 1; per prenotazioni https://www.eventbrite.it/e/biglietti-notte-europea-dei-ricercatori-a-roma-tre-63637849521).
Di seguito l’Abstract. Vi aspettiamo.
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SOTTO I SETTE COLLI
di Alessio Argentieri, Fabiana Console, Giovanni De Caterini, Roberto Mazza, Marco Pantaloni, Maurizio Parotto e Giovanni Rotella
Lo sviluppo delle moderne Geoscienze a Roma fonda le sue radici all’inizio del XIX secolo. Sotto il pontificato di Pio VII, grazie al tesoriere generale vaticano Cardinale Alessandro Lante, fu istituita nel 1804 presso La Sapienza la prima cattedra di Mineralogia. A ricoprire l’incarico fu chiamato padre Carlo Giuseppe Gismondi, appartenente all’Ordine degli Scolopi e insegnante nel Collegio Nazzareno. Qui si può individuare il momento fondante della tradizione geo-mineralogica nella Città Eterna, che consentì la nascita di una Scuola geologica romana nella seconda metà dell’Ottocento. E’ Giuseppe Ponzi il capostipite dell’albero “geo-genealogico” capitolino: medico, naturalista e zoologo, fu successore di Gismondi, Pietro Carpi e Vincenzo Sanguinetti nell’insegnamento di mineralogia all’Università La Sapienza e titolare della nuova cattedra di Geologia, istituita nel 1864 durante il Pontificato di Papa Pio IX. Nella stessa epoca i Gesuiti, sotto la guida illuminata del poliedrico padre Angelo Secchi, diedero avvio presso il Collegio Romano agli studi sismologici accanto a quelli di astrofisica e delle altre branche della Fisica Terrestre (meteorologia, geodesia, geomagnetismo). Le ricerche geo-paleontologiche nell’area romana proseguirono invece il proprio percorso autonomo ad opera degli epigoni di Ponzi (Romolo Meli, Alessandro Portis, Antonio Neviani, Enrico Clerici, Gioacchino de Angelis d’Ossat, Giuseppe Tuccimei, per citare i più illustri) compiendo la transizione verso il XX secolo. Ma la storia della cartografia geologica di Roma ha un prologo: è il veneto Giovan Battista Brocchi a completare, tra il 1820 e il 1830, il primo rilievo dell’area urbanizzata, esteso dai Sette Colli alla valle del Tevere e alla dorsale di Monte Mario. Molti aggiornamenti seguono nel tempo, con cadenza quasi periodica, fino ad arrivare nel 2008 al foglio 374 del Progetto CARG alla scala 1:50.000, che rappresenta l’attuale cartografia geologica ufficiale della città di Roma.


Pria Pula, l’isola che non c’è (sulle carte geologiche moderne)

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di Luca Barale

La Pria Pula (anche “Pria Pulla” o “Pria Poula”) è uno scoglio di pochi metri di lunghezza, situato a poco più di 200 metri di distanza dalla costa di Pegli (Genova), alle coordinate WGS84 44°25'15.8"N - 8°48'20.6"E. Il nome dello scoglio (letteralmente “Pietra Pollastra”) deriva dalla caratteristica forma “crestata” (Fig. 1), ben riconoscibile anche da riva.


Fig. 1. La Pria Pula in una cartolina d’epoca; sullo sfondo il lungomare di Pegli.
Immagine tratta dal volume “Pegli nel tempo e nei tempi” (Graffigna & Maggio, 2005)
La Pria Pula ha da sempre rappresentato un simbolo della cittadina di Pegli, tanto da essere inserito negli ultimi anni nel censimento dei Luoghi del Cuore dal FAI - Fondo per l’Ambiente Italiano (https://www.fondoambiente.it/luoghi/isolotto-di-pria-pulla).
Negli anni ’70, l’esistenza della Pria Pula fu minacciata dalla costruzione della diga foranea per il Porto di Voltri-Pra’. Tuttavia, a seguito delle proteste dei pegliesi, il tracciato dell’opera fu deviato di alcuni metri rispetto al progetto originario così da risparmiare lo scoglio, pur racchiudendolo all’interno del bacino portuale.
Dal punto di vista litologico, la Pria Pula rappresenta la continuazione a mare dei metagabbri a glaucofane che costituiscono il promontorio del Bric Castellaccio, già conosciuti nella seconda metà del XIX secolo (es., Bonney, 1879; Parkinson, 1899; Franchi, 1896) e oggi attribuiti all’unità dei Metagabbri del Bric Fagaggia (Unità tettono-metamorfica Palmaro-Caffarella, Massiccio di Voltri; Capponi & Crispini, 2008). 
Le uniche indicazioni in nostro possesso sulla composizione litologica della Pria Pula compaiono in due carte geologiche pubblicate tra la fine del XIX e i primi decenni del XX secolo ad opera di due illustri geologi che molto contribuirono alle conoscenze geologiche sull’area genovese. Si tratta della “Carta geologica della Tratta Pegli-Rossiglione (Scala di 1:25.000)” di Torquato Taramelli, allegata al lavoro “Osservazioni geologiche in occasione del traforo delle gallerie del Turchino e di Cremolino sulla linea Genova-Asti” (Taramelli, 1898), e della “Carta Geologica di Pegli e dintorni” inserita nella monografia Liguria Geologica di Gaetano Rovereto (1939). In entrambe le carte, le dimensioni dell’isolotto sono state esagerate, per consentirne la rappresentazione. Nella carta di Taramelli (Fig. 2), la Pria Pula e il vicino promontorio del Bric Castellaccio sono rappresentati con colore giallo scuro, corrispondente ad “Anfiboliti (Ovarditi, prasiniti, ecc.)”. Analogamente, nella carta di Rovereto, la Pria Pula è contrassegnata da una “V” rossa (in verità appena leggibile; Fig. 3), indicante “Gabbri e scisti glaucofanitici”, ovvero “i noti gabbri glaucofanitici e a lawsonite di Pegli e della Pria Poula, grosso scoglio in mezzo al mare” (Rovereto 1939, pag. 308).

Fig. 2. “Carta geologica della Tratta Pegli-Rossiglione (Scala di 1:25.000)” di Torquato Taramelli (1898). La Pria Pula (qui “Pria Poula”), così come il vicino promontorio del Bric Castellaccio, è rappresentata con colore giallo scuro, corrispondente alla voce “Anfiboliti (Ovarditi, prasiniti, ecc.)” della legenda (b). Riproduzione per gentile concessione della Biblioteca ISPRA, Roma.

Fig. 3. Particolare della “Carta Geologica di Pegli e dintorni” di Rovereto (1939). La Pria Pula, e il promontorio del Bric Castellaccio, presentano una campitura a “V” rosse, corrispondente a “Gabbri e scisti glaucofanitici (serie di Montenotte?)”.
Al contrario, sulle carte geologiche ufficiali dell’area di Genova pubblicate nei decenni seguenti (Carta Geologica d’Italia 1:100 000, Foglio 82 Genova, I Ed., Sacco & Peretti, 1942; II Ed., Servizio Geologico d’Italia, 1971; Carta Geologica d’Italia alla scala 1:50,000, Foglio 213-230 Genova; Capponi e Crispini, 2008), il toponimo “Pria Pula” compare, ma, a causa della scala di rappresentazione troppo piccola, la composizione litologica dell’isolotto non è più riportata (Fig. 4). Quello della Pria Pula è uno dei tanti esempi di come le “vecchie” carte geologiche, oltre ad avere un innegabile valore storico, possano anche rappresentare un’utile risorsa dal punto di vista scientifico, poiché ricche di informazioni di dettaglio spesso omesse dai documenti moderni.

Fig. 4. Particolari della zona di Genova Pegli tratti dalla Carta Geologica d’Italia alla scala 1:100.000, Foglio 82 Genova, II Ed. (a; Servizio Geologico d’Italia, 1971) e dalla Carta Geologica d’Italia alla scala 1:50,000, Foglio 213-230 Genova (b; Capponi & Crispini, 2008). In entrambi i casi, il toponimo “Pria Pula” è presente, ma senza indicazioni sulla sua natura litologica.

Bibliografia
Bonney T.G. (1879) - Note on some Ligurian and Tuscan serpentinites. The Geological Magazine, 2nd decade, 6: 362-371.
Capponi, G., Crispini, L. (2008) - Foglio 213-230 Genova della Carta Geologica d’Italia alla scala 1:50.000 e note Illustrative. APAT, Roma.
Franchi S. (1896) - Prasiniti e anfiboliti sodiche provenienti dalla metamorfosi di rocce diabasiche presso Pegli, nelle isole Giglio e Gorgona ed al Capo Argentario, Bollettino della Società Geologica Italiana, 15: 169-181.
Graffigna G.B., Maggio G. (2005) Pegli nel tempo e nei tempi. Ateneo Edizioni, Genova.
Parkinson J. (1899) - The glaucophane gabbro of Pegli, North Italy. The Geological Magazine, 4th decade, 6: 292-298.
Rovereto G. (1939) - Liguria Geologica. Memorie della Società Geologica Italiana, 2: 1-741.
Servizio Geologico d’Italia (1971) - Foglio 82 Genova, II Edizione, Carta Geologica d’Italia alla scala 1:100.000. Roma.
Sacco F., Peretti L. (1942) Carta Geologica d’Italia 1: 100 000. Foglio 82 Genova, I Edizione. Stab. Salomone, Roma.
Taramelli T. (1898) Osservazioni geologiche in occasione del traforo delle gallerie del Turchino e di Cremolino sulla linea Genova-Asti. Tip. Squarci, Roma


The Seven Year Itch: GEOITALIANI 2012-2019

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di Alessio Argentieri e Marco Pantaloni

Oggi la Sezione di Storia delle Geoscienze compie sette anni di vita. Il parto, seguito ad una lunga gestazione, avvenne il 7 dicembre 2012 nell’Aula del Dipartimento di Scienze della Terra della Sapienza a Roma con la Conferenza “Le Geoscienze tra passato e futuro”. L’evento, organizzato dalla Società Geologica Italiana a seguire l’Assemblea generale, è stato raccontato già nel quinto anniversario con l’articolo che vi invitiamo a rileggere (http://www.geoitaliani.it/2017/12/primo-lustro.html).

Per il settimo compleanno ecco un piccolo omaggio a lettrici e lettori di GEOITALIANI, molti dei quali sappiamo essere cinefili.
Nel 1955 usciva nelle sale cinematografiche “The Seven Year Itch”, regia di Billy Wilder, uno dei film su cui si fonda il mito di Marilyn Monroe. In Italia fu rinominato “Quando la moglie è in vacanza”, con una traduzione infedele (letteralmente sarebbe “Il prurito del settimo anno”), forse imposta dalla censura che di cose pruriginose non voleva assolutamente sentir parlare.
Il numero magico 7 ci avrebbe consentito altre citazioni cinematografiche, dai cowboys guidati da Yul Brynner (“The Magnificent Seven” di John Sturges, 1960) o meglio ancora dal loro archetipo giapponese (“Shichinin no Samurai di Akira Kurosawa, 1954), sino a “Snow White and the Seven Dwarfs” (regia di David Hand, 1937). E su quest’ultima scelta avremmo avuto gioco facile, visto che nessun geologo al mondo può negare che le proprie passioni professionali abbiano una radice, seppur minima, nelle rappresentazione disneyana delle viscere della Terra, da cui i nanetti cavavano pietre preziose multicolori.

Ma su tutte le immagini possibili abbiamo deciso di festeggiare la ricorrenza del 7 dicembre con un altro dono del sottosuolo, il flusso d’aria risalente dalle gallerie ipogee per regalarci la meravigliosa Marilyn in abito bianco, che a distanza di decenni ancora estasia.



Dopo sette anni il prurito che diede vita al progetto GEOITALIANI ancora c’è e speriamo sia molto, ma molto contagioso, sino a diventare cronico.
Per questo motivo vi invitiamo a partecipare alle attività e a sostenere la Società Geologica Italiana, rinnovando l’iscrizione per il 2020.

Il contributo degli iscritti rappresenta un supporto fondamentale per la vita della nostra Società, ma soprattutto per poter continuare ad effettuare tutte le attività sociali, tese alla promozione della cultura delle geoscienze sia all'interno della comunità scientifica, nazionale e internazionale, sia nel Paese. Rinnovare la propria associazione alla Società Geologica Italiana significa sostenere l'intera comunità delle geoscienze nel segno della storia, della tradizione e del rinnovamento.

Rinnovando l’iscrizione per il 2020 non mancate di esprimere l’adesione alla Sezione di Storia delle Geoscienze.
GEOITALIANI wants you!!!

La rota porphyretica nella Basilica di San Pietro in Vaticano

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di Marco Pantaloni

Tra le migliaia di visitatori che ogni giorno entrano nella Basilica di San Pietro in Vaticano, solo pochi si soffermano a osservare una lastra di porfido collocata proprio all’interno della porta centrale, o porta del Filarete, della Basilica.
La vastità e lo splendore della chiesa distolgono l’attenzione del visitatore dal disco rosso cupo di porfido, conosciuto appunto come rota porphyretica, incastonato tra gli altri marmi nel pavimento.

Questo disco marmoreo rappresenta uno dei simboli più importanti per il ruolo secolare della Chiesa perché sopra di essa si svolgevano le solenni cerimonie della Corona e l'intronizzazione dei papi. L’importanza della rota è dimostrata dal fatto che, in passato, non poteva essere calpestata dal popolo comune per nessun motivo; la tradizione riporta che sulla lastra di porfido il papa Leone III abbia incoronato Carlo Magno, nella famosa notte di Natale dell’anno 800, anche se l’iconografia classica non ne riporta l’esistenza.

L’incoronazione di Carlo Magno (dettaglio), di Raffaello Sanzio.
(Web Gallery of Art: Pubblico dominio, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=14614952)


La presenza di questa rota è stata richiamata in molti testi e la sua presenza deriva dal recupero di materiale dalla demolizione della precedente Basilica vaticana. Infatti, lo storico Onofrio Panvinio (1530-1568) nella descrizione del pavimento della vecchia basilica riporta la presenza di quattro rotae: due in marmo egiziano, delle quali una immediatamente dopo la soglia e due in porfido, posizionate una nel nartece e un’altra, quasi sicuramente la rota porphyretica, in corrispondenza dell’altare del Santissimo Sacramento. Questa posizione è confermata dal chierico della basilica Giacomo Grimaldi(1560-1623) che descrive quattro rotae allineate di cui una, che lui chiama “grande porphyretica”, posta di fronte all’Altare del Santissimo Sacramento. Grimaldi fu un attento cronista delle demolizioni e delle ricostruzioni della basilica, e uno dei pochi a riprodurre l’ambiente dell’antica basilica costantiniana. La rota porphyretica, nella riproduzione di Grimaldi, è la più grande delle quattro rotae e viene evidenziata dal colore rosso, al centro della navata in prossimità dell’altare del Santissimo Sacramento.

Rappresentazione dell’antica Basilica di San Pietro di Giacomo Grimaldi;
il disco rosso al centro del disegno è la rota porphyretica
(http://projects.leadr.msu.edu/medievalart/exhibits/show/roman_architecture_ages/old_st_peters)

Durante la costruzione della attuale basilica, il vecchio pavimento venne interrato a circa 4 metri di profondità e venne riesumato solo nel 1649 in occasione del Giubileo, quando papa Innocenzo X fece sostituire il pavimento della chiesa disegnato dal Maderno con l’attuale pavimento intarsiato di Gian Lorenzo Bernini. Il riposizionamento della rota porphyreticanell'attuale posizione, quindi, avvenne proprio in quel periodo; tuttavia durante i lavori la lastra fu spezzata e venne quindi ridotta nelle attuali dimensioni di circa 2,6 metri di diametro.
Nessuno studio riporta informazioni circa l’origine della lastra di porfido; sicuramente si tratta di materiale di riuso proveniente da opere della Roma imperiale. Questa pietra ornamentale, chiamata dai romani Lapis porphyrites o Porfido imperiale, è caratterizzata da un color rosso porpora con piccoli cristalli di feldspato bianco. Scientificamente è descritta come una dacite-andesite porfirica del Precambriano, con massa di fondo colorata da ematite e piemontite silicea con manganese. I cristalli rosa e bianchi sono costituiti da feldspato plagioclasico e quelli neri da biotite o orneblenda.

La rota porphyretica collocata all'interno della porta centrale
della Basilica di San Pietro in Vaticano.

Venne estratta a partire dal I sec. a.C. a Gebel Dokhan nel Deserto egiziano orientale, divenuto poi Mons Porphyrites. Fu usata soprattutto ai tempi di Nerone, Traiano ed Adriano, e veniva estratta nelle cave di proprietà imperiale; la predilizione degli imperatori per il colore porpora fece sì che questa pietra ornamentale divenisse uso riservato dell’imperatore e, da quel momento, simbolo del potere.
Dopo l’abbandono delle cave egiziane, gli scalpellini romani riusarono massicciamente questa pietra, che venne quindi chiamata porfido rosso antico o porfido rosso egiziano, nei pavimenti cosmateschi delle chiese di Roma.

Di fatto, il valore simbolico della rota porphyretica la rende una delle pietre ornamentali più evocative nella storia dell’occidente, assegnandoli un valore culturale enormemente superiore a quello intrinseco economico.

Per saperne di più


Corso di Storia della geologia alla Sapienza, Università di Roma

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di Alessio Argentieri e Marco Pantaloni

La Sezione di Storia delle Geoscienze della Società Geologica Italianaè lieta di annunciare che presso il Dipartimento di Scienze della Terra della Sapienza Università di Roma, è stato attivato l’insegnamento di Storia della Geologia. L’incarico di docenza è stato conferito a Marco Romano, che da giovane ricercatore fu fra i primi adepti della Sezione progetto GEOITALIANI ed oggi, dopo qualche anno, affronta questo importante impegno della sua maturazione didattica e scientifica.
Il corso è collocato nel secondo semestre dell’Anno Accademico 2019/20 ed avrà inizio il prossimo giovedì 27 febbraio (ore 16). Le lezioni si svolgeranno presso il Dipartimento di Scienze della Terra nei seguenti orari: giovedì 16-18 (aula 16) e venerdì 11-13 (Aula 5).
L’evento è motivo di orgoglio e vanto per la nostra Sezione, a nome della quale formuliamo i migliori auguri al collega Romano e ringraziamo il Dipartimento di Scienze della Terra per la lungimirante scelta.
E’ un momento significativo per la comunità geoscientifica italiana, che con questo ulteriore passo rimette la propria tradizione culturale quale base fondante della formazione delle nuove leve di geologi. Che si diventi tecnici, ricercatori, didatti, pubblici funzionari o liberi professionisti, è imprescindibile conoscere le proprie radici, sapere da dove si proviene, per capire dove dirigersi.
Oltre sette anni fa con questo spirito ci si lanciò nell’impresa GEOITALIANI, come ricordato di recente nel celebrare il settimo anniversario della nascita della Sezione (https://www.geoitaliani.it/2019/12/the-seven-year-itch.html).

Ed è una ottima notizia che in questo 2020, proprio nel luogo in cui Bruno Accordi concepì e realizzò il suo Storia della geologia (pubblicato nel 1984, e ad oggi l’unico trattato organico sulle geoscienze italiane), finalmente si ritorni a parlare del passato quale chiave del presente e del futuro. Per giunta nello stesso anno in cui si attribuirà il nuovo premio co-intitolato a Bruno Accordi e Nicoletta Morello che la SGI, con il fondamentale supporto della Fondazione Banca Sella, attribuirà a giovane studiosa/o di storia delle geoscienze.
Ci concediamo perciò con sollievo un poco di ottimismo rispetto alle considerazioni fatte nel 2013 sulle capacità delle varie discipline scientifiche italiane nel valorizzare la propria tradizione culturale (http://www.geoitaliani.it/2013/12/le-vite-degli-altri-storia-e-memoria.html).




Prize “Quintino Sella for the History of Geosciences” in honor of Nicoletta Morello and Bruno Accordi

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The Società Geologica Italiana is proud to announce that has been published the first edition of the “Biennial Prize “Quintino Sella for the History of Geosciences” in honor of Nicoletta Morello and Bruno Accordi - Competition notice 2020 for the two-year period 2019 - 2020.

The Prize, sponsored by the Banca Sella, consists of € 2.000. The winner will receive the membership to the Società Geologica Italiana for the year following the prize assignment, or the renewal if already a member.

The Prize is conferred to the author of the best scientific paper in the field of the History of Geosciences, published on national or international reviews in the two years before the call. The Prize is indivisible.

The Competition is open to all those who, on the deadline for the submission of applications, meet the following requirements:
  • under the age of 35;
  • are not tenured university professors.
The application form must be submitted by self-certification, in which the general details must be reported, as well as the candidate's personal and residence data according to the format available on the Società Geologica Italiana website, and must reach the Secretary of the Società Geologica Italiana by April 30th, 2020 accompanied by the following documentation on free paper:
  • the pdf file of the scientific paper presented for the competition (already awarded papers are not admitted);
  • the "curriculum vitae";
  • the list of any other publications of the candidate.
The documentation should be sent in pdf format to the following address: premi@socgeol.it

The announcement of the winner and the awarding of the prize will take place on the occasion of the General Assembly of Members to be held in Trieste at the headquarters of the 90th National Geological Congress of the Società Geologica Italiana in September 2021.



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